Nuovo fisco a misura di green, per spingere la svolta serve coraggio

Nuovo fisco a misura di green, per spingere la svolta serve coraggio
Finanza aziende

«L’Italia presenta una tassazione ambientale, e in particolar modo energetica, medio alta. Questo perché le accise, soprattutto quelle energetiche, sono state utilizzate come strumenti di gettito, per la correzione dei conti pubblici e anche come strumenti per far fronte a delle emergenze». A dirlo è Andrea Zatti, professore di Finanza pubblica europea e di Politiche pubbliche e ambiente presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Pavia, il quale inserisce lo strumento della fiscalità ambientale al centro dell’agenda economica del Paese. In altre parole, lo Stato ha, praticamente da sempre, tassato i carburanti e l’energia elettrica, ma anche l’utilizzo del suolo e delle risorse idriche, tutti ambiti che direttamente o indirettamente incidono sulla salute dell’ambiente. Adesso i tempi sono maturi per rimodulare la tassazione, in modo da favorire comportamenti e politiche “green”.

Secondo il professore la crisi conseguente alla pandemia ha portato con sé l’esigenza, ampiamente condivisa, di modificare in maniera strutturale alcuni modelli di sviluppo, dando luogo a percorsi di ricostruzione economica in discontinuità rispetto al passato, anche per quanto riguarda ambiente e clima. In relazione a questa esigenza di discontinuità, ha acquisito un’importanza centrale il ruolo dell’intervento della finanza pubblica, considerata fondamentale per far avviare e alimentare i nuovi sistemi socio-economici.

«Dobbiamo avere la consapevolezza di essere in un momento storico cruciale – afferma Zatti – Un impiego di risorse pubbliche, o comunque garantite dal pubblico, dalle dimensioni messe in campo (ad esempio con il PNRR, ndr) è difficilmente replicabile e vincola le future possibilità d’intervento per diverso tempo». È per questo che «nei piani di ripresa adottati dalle diverse istituzioni, sull’onda dell’impulso europeo, è stata destinata sinora un’attenzione prioritaria al versante delle spese pubbliche, in particolar modo d’investimento – prosegue il professore – E all’esigenza che esse risultino coerenti con gli obiettivi di decarbonizzazione e di transizione energetico-ambientale affermati a livello internazionale, europeo e nazionale».

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All’interno di questo scenario di cambiamento, che prevede una diversa struttura dei sistemi economici, un ruolo di rilevo deve essere ricoperto dall’aspetto tributario. Attraverso una riforma degli strumenti e dei processi è possibile indirizzare le risorse in maniera ambientalmente ed economicamente efficiente. È il concetto della cosiddetta fiscalità ambientale, ovvero di «quegli strumenti tributari che possono in qualche modo incentivare e indirizzare le scelte degli operatori economici, siano essi imprese, consumatori o anche pubblica amministrazione, verso scelte e comportamenti più favorevoli all’ambiente», spiega Zatti, che prosegue: «L’idea è quella di premiare, attraverso una riduzione di parte del gravame fiscale, chi adotta politiche ambientali positive e, ovviamente, penalizzare coloro che con le proprie arrecano, o rischiano di arrecare, danno all’ambiente».

Un esempio pratico è l’alleggerimento delle imposte sul lavoro, sostituendo il gettito con imposte legate alle politiche nei confronti dell’ambiente messe in pratica dall’azienda. In altre parole, chi adotta determinati comportamenti e politiche green può accedere a sconti sulla tassazione del lavoro. Il gettito che viene a mancare arriverebbe dalle aziende che, invece, non accolgono iniziative green e che per questo debbono pagare nelle imposte in più. Ovviamente non è pensabile che questi aumenti possano avvenire da un giorno all’altro, da una parte soddisfacendo le attuali necessità economiche e dall’altra consentendo una forte detassazione della componente lavoro. Devono essere graduali, ragionati e ponderati nel tempo.

In Italia l’incidenza della tassazione ambientale, sia sul PIL che sul totale delle entrate, partita nel 1995 da valori tra i più alti d’Europa (rispettivamente 3,5% e 9,1%), si è poi ridimensionata significativamente sino al 2008 (2,6% e 6,2%). Nel 2019 l’incidenza sul totale delle entrate è al 7,7% e sul PIL al 2,6%.

«Non sono favorevole a misure estreme – afferma Zatti – Per fare un esempio, non si può affermare soltanto che dal 2030 non ci sono più auto a combustibili fossili. È necessario creare una discontinuità. Bisogna iniziare a dire che ogni anno il costo del carburante crescerà del 10/20 per cento, così le persone vengono preparate gradualmente». Successivamente si deve capire quali saranno le alternative. Per il professore è necessario comunicare che «usare i combustibili fossili costerà di più, ma entro il 2030 verranno sviluppate tecnologie buone e a costi accettabili. Saranno le imprese stesse a dismettere o non produrre più basandosi sui combustibili fossili». Ma se le alternative non ci saranno tutto si complica e deve intervenire la politica capitalizzando l’eventuale detassazione programmata.