Il pasticcio della Trumpeconomics
di Gianfranco Fabi*
C’è qualcosa di paradossale nelle prime mosse del presidente americano sul fronte dei dazi e del ruolo degli Stati Uniti nel commercio mondiale. Una stretta con la Cina era ampiamente prevista, ma gran parte degli osservatori erano convinti che, proprio nell’interesse degli stessi americani, Trump si sarebbe limitato verso gli altri paesi a qualche simbolica misura sulla scia di quanto fatto nel precedente quadriennio di presidenza.
In fondo si era convinti che un presidente americano avrebbe dovuto conoscere i fondamentali della teoria economica così come i passaggi più rilevanti della storia americana. Così non è stato e i primi dieci giorni di aprile sono stati caratterizzati da una tempesta politica e finanziaria senza precedenti.
All’inizio dei corsi di economia politica si studia che poco più di duecento anni fa, era il 1817, un famoso agente di Borsa dal nome di David Ricardo, pubblicava la sua opera principale: “I Principi di Economia Politica e dell'Imposta”. Un’opera in diretta contestazione delle teorie, sostenute in particolare da Thomas Malthus, sull’esigenza di alzare barriere protezionistiche per difendere le produzioni agricole nazionali. Ricardo sviluppò la teoria del vantaggio comparato che è rimasta e rimane l’argomentazione principale dei sostenitori della libertà del commercio tra i diversi paesi. La teoria del vantaggio comparato sostiene infatti che le forze di mercato spingono tutti i fattori di produzione verso il loro migliore utilizzo. Per questo la libertà del commercio internazionale costituisce un vantaggio per tutti i paesi: ognuno può aumentare la propria produzione interna e accrescere importazioni e consumi (e quindi benessere per i propri abitanti) specializzandosi nei settori in cui vi è maggiore redditività.
E se dalle teorie economiche passiamo alla loro verifica pratica guardiamo alla storia americana cent’anni dopo Ricardo. In quello che avvenne alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, sembra di leggere in controluce quanto sta avvenendo in questo periodo. Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, l’amministrazione democratica aveva infatti stabilito un sistema di dazi particolarmente bassi, ma nel 1922 la nuova maggioranza repubblicana al Congresso (anche se Trump non era ancora nato) approvò il Fordney-McCumber Tariff Act (dal nome dei suoi promotori) che prevedeva un aumento della tariffa media sui beni importati di ben il 64%. In un primo tempo l’economia Usa sembrò risollevarsi, ma quasi all’improvviso arrivo la più famosa e grave crisi dell’economia moderna, la crisi del ’29. La recessione senza precedenti contribuì alla spinta a un nuovo rialzo delle barriere commerciali, nella speranza che una maggior protezione doganale potesse favorire la ripresa dell’economia. Nel giugno del 1930 il Congresso approvò lo Smoot-Hawley Tariff Act, che nella sua versione finale innalzava ulteriormente i dazi su ben 887 merci. Pari pari quello che è avvenuto nei giorni scorsi. La tariffa media sui prodotti importati venne alzata di un ulteriore 16% rispetto a quella già molto alta del 1922 e raggiunse il livello più alto negli Usa dal 1830. E subito fece un forte balzo in avanti la disoccupazione con una recessione senza precedenti. Dopo tre anni di disastro economico arrivò Franklin D. Roosevelt con il suo “New Deal”, una politica keynesiana di forte spesa pubblica, di spinta alla fiducia della popolazione e, particolarmente importante, di progressiva apertura ai commerci.
E quindi se si guarda alla politica economica e alla storia tutto lascia credere che un eventuale mantenimento degli alti dazi, dopo la moratoria di 90 giorni, potrebbe avere molti effetti negativi a breve termine soprattutto per il freno all’economia globale e in particolare ai paesi in via di sviluppo. Effetti negativi incomparabilmente più alti degli effetti positivi, tutti da dimostrare, a lungo termine.
I dazi comportano una perdita nelle ragioni di scambio per gli Stati Uniti con un impatto negativo sul potere d’acquisto di salari e stipendi. La riduzione delle importazioni ridurrebbe anche la domanda americana di valute estere per pagarle e, di riflesso, l’offerta di dollari sul mercato. Un probabile effetto sarebbe l’apprezzamento del dollaro, peggiorando la competitività internazionale delle imprese americane e annullando, almeno in parte, gli effetti desiderati dei dazi.
Ma, come avvenuto dopo la crisi del ’29, gli effetti più gravi potranno riguardare la crescita economica e le disuguaglianze tra paesi. Con dazi che vanno dal 37 al 46% paesi come il Vietnam o il Bangladesh vedrebbero vanificati i loro sforzi di crescita economica e industriale. E, come hanno dimostrato i primi effetti della Trumpeconomics la crisi commerciale si potrebbe estendere al sistema finanziario minando il ruolo del dollaro come valuta di riserva, come unità di conto e come fonte di finanziamento del debito pubblico americano.
Forse qualcuno potrebbe ricordare a Trump che le importazioni Usa di beni e servizi, importazioni che favoriscono il benessere dei cittadini americani, sono state pagate solo in parte con altri beni e servizi, ma soprattutto con i dollari di carta emessi senza spese dagli Usa. Dollari che, almeno finora, sono rimasti in gran parte nelle riserve delle banche centrali dei diversi paesi che peraltro hanno anche acquistato i titoli indispensabili per finanziarie il debito americano. E se la guerra commerciale si trasformasse in una guerra finanziaria la difesa americana sarebbe drammaticamente (per loro) una difesa solo di carta.
* Giornalista editorialista