Dai distretti industriali alla responsabilità sociale
di Gianfranco Fabi *
Ogni tanto vale la pena di scavare attorno a realtà economiche che spesso diamo per acquisite, quasi un postulato che non ha bisogno di essere dimostrato. E’ il caso della dimensione delle piccole e medie imprese come spina dorsale e struttura portante dell’economia italiana. Una dimensione che continua ad avere successo nonostante i miti del “grande è bello” e le tentazioni di far prevalere gli aspetti finanziari su quelli strettamente produttivi.
In questa prospettiva ci sono almeno tre elementi che costituiscono la specificità positiva del caso italiano.
- La logica dei distretti. Anche se le maggiori analisi economiche sono state realizzate negli ultimi decenni del secolo scorso, grazie ad economisti come Giacomo Becattini e Giorgio Fuà, resta vivace la forza trainante di quella che era stata chiamata “coralità produttiva” all’interno delle comunità locali. I distretti tradizionali si sono progressivamente aperti, sull’onda della globalizzazione e della rivoluzione informatica, ma la logica di fondo continua ad essere un fattore di successo a molti livelli.
- Il “bello e ben fatto”. La dimensione estetica (pensiamo al design nella moda come nel mobile) e la capacità di attuare un’innovazione incrementale hanno fornito alle Pmi italiane quella marcia in più necessaria per affrontare la concorrenza internazionale. Lo spirito imprenditoriale è stato e continua ad essere un motore fondamentale. Con una ricerca “ossessiva” della qualità del prodotto.
- La responsabilità sociale. Secondo l’illuminante definizione dettata da Marco Vitale, tra i maggiori economisti d’impresa italiani, «l’impresa è istituzione di interesse pubblico a gestione privata, strumento strategico ed operativo per lo sviluppo collettivo». L’impresa è quindi un soggetto la cui ragion d’essere e i fondamenti della crescita, vanno al di là della ricerca del potere economico e della massimizzazione del profitto. Mettendo in pratica i valori della partecipazione, della formazione permanente, dei rapporti costruttivi con il territorio.
Ecco allora come su questi tre filoni si sia costruita e si continui a costruire un sistema di imprese che sanno distinguere tra il sano profitto, che costituisce un fattore di crescita anche perché è una misura dell’efficienza e del razionale utilizzo dei fattori produttivi, e il profitto sterile perché realizzato sottraendo valore all’impresa stessa e al sistema pubblico grazie all’uso distorto di agevolazioni, incentivi e favori. L’impresa socialmente responsabile sa aggiungere motivazioni ai propri dipendenti, sa migliorare la propria reputazione, sa far crescere la propria immagine sul mercato. Con un punto di forza: l’integrazione tra il capitale finanziario, lo sviluppo tecnologico e la capacità organizzativa ponendo al centro quei capitali umani e sociali che fanno la differenza.
Per queste ragioni si può avere più di una speranza sul fatto che le imprese italiane sappiano contrastare con i propri risultati le sirene del declino.
* Editorialista