L’Europa del futuro è delle Pmi ma per fare la differenza servono decisioni e unità

L’Europa oggi è un insieme di 27 Paesi che decidono per via governativa. Quando si dice l’Europa si fa riferimento a un processo decisionale che in parte viene dalla Commissione e in parte – in grossa parte – affida il potere decisionale ai 27 Governi che la compongono. E non sempre questo è un punto a nostro favore. Ne parliamo con Pietro Francesco De Lotto, presidente del Ccmi

Unione Europea

Il futuro delle Pmi in Europa, tra autonomia degli Stati e legislazione europea in grado di uniformare standard e normative e semplificare la vita delle imprese. Se ne parla da anni e il tempo, a questo punto, dovrebbe essere maturo, alla luce di mercati sempre più competitivi e di esigenze sempre più strategiche. Ma, si sa, la strada dei grandi risultati è lunga. Come conferma Pietro Francesco De Lotto, presidente della Commissione per i Mutamenti Industriali (Ccmi) che, in questa intervista, ci racconta l’Europa a 360 gradi.

L’Europa pensa ancora al piccolo oppure è il tempo di diventare grandi?
Fino al 2015 le Pmi erano un bellissimo slogan da usare a tutti i livelli e in tutti i documenti: era iniziato un percorso, un percorso non solo di maggiore consapevolezza ma anche di determinazione nel realizzare delle vere e proprie politiche finalizzate alla valorizzazione delle Pmi.

Si era partiti all’inizio del decennio con lo Small Business Act, lo statuto delle imprese, rimasto tuttavia più sulla carta che tradotto nei fatti, sia a livello comunitario che dei singoli Paesi. Col tempo si è arrivati a inserire in ogni dossier di origine comunitaria un capitolo dedicato alle Pmi. E questa è stata una grande novità: non era mai capitato.

Intanto, a livello italiano e in seno a Confartigianato, si discuteva del principio "one in, one out", al fine di ridurre gli oneri amministrativi per i cittadini e le imprese, prestando particolare attenzione alle implicazioni e ai costi dell'applicazione della legislazione, soprattutto per le piccole e medie imprese. Nonostante l’attuale non favorevole appoggio dei sindacati europei, la commissione nel programma di lavoro 2022 ha posto esplicitamente il principio "one in, one out" alla base della miglior legislazione. E questo ben 12 anni dopo che passò al Cese con un mio emendamento: fatto che mi rende particolarmente orgoglioso.

Tuttavia, quanto fatto sino a ora non è sufficiente. Il fatto che ci sia da parte della commissione la necessità di favorire la miglior legislazione possibile che favorisca le Pmi va di pari passo con altri strumenti. Una proposta lanciata quest’anno è un difensore civico finanziario per le condizioni applicate alle Pmi da parte del sistema del credito: spero non ci vogliano altri dodici anni per introdurlo… Questo per affrontare un secondo tema che è la difficoltà di accesso al credito da parte delle Pmi. E arriviamo a uno dei punti chiave. In un mercato ormai completamente diverso da quello di pochi anni fa, e per le sfide che abbiamo davanti, si pone la necessità di trovare una dimensione adeguata per gli investimenti e per passare dall’accesso al credito all’accesso al capitale. La dimensione delle imprese è dunque legata alla prospettiva e alla soddisfazione dei pilastri cardine del futuro.

Quali sono questi pilastri dello sviluppo e come li sta affrontando l’Europa?

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Il primo è la transizione energetico-ambientale. Il secondo è l’estensione dell’operatività dalla progettazione al servizio post-vendita, il che significa allungare la catena del valore facendolo diventare un fattore di competitività. Legato a questo emerge la necessità di grandi investimenti in conoscenza, formazione continua, di dipendenti e imprenditori, anche per diventare sempre più consapevoli di quanto le tecnologie che adottiamo (dalla realtà aumentata, ai servizi post-vendita, dall’Iot) celino la necessità di grande consapevolezza sotto il profilo della sicurezza digitale, nodo cruciale per le Pmi. Non solo per la tutela di truffe digitali ma anche, e qui è un esempio di ciò che la politica industriale europea intende fare da subito con investimenti enormi, per tutelare la proprietà intellettuale delle imprese. Perché fare girare informazioni, progetti e servizi su canali non sicuri, e depositare i propri dati nel cloud, è uno dei temi che stiamo discutendo con grandissima attenzione.

Il terzo pilatro è la competitività internazionale, che per l’Italia è fondamentale. In questo momento la discussione a livello europeo è come riuscire a fare sì che il complesso dell’ecosistema europeo (imprese, cittadini, istituzioni) sia sempre meno dipendente strategicamente da altri soggetti. I mercati internazionali devono essere aperti e sempre meno influenzati da restrizioni commerciali e da regole bilaterali che hanno portato a distorsioni importanti in particolari settori.

Basti pensare che la catena di approvvigionamento di materie prime - non solo gas e petrolio o le 37 materie prime strategiche elencate in tutti i dossier - hanno effetto sulle multinazionali ma anche sul più piccolo fornitore di componentistica inserito in filiere più ampie.

Di qui la ricerca e lo sviluppo di progetti comuni europei sul quantum computing (computer di nuova generazione), su tecnologie riguardanti lo storage (conservazione) di dati in Europa, sulla capacità di disporre di prodotti o beni che siano più accessibili. Non dimentichiamo che il 98% del litio arriva da Cile e Cina e il cobalto per il 98% da un solo produttore al mondo. Quindi oltre ad accordi internazionali per diversificare e diventare meno dipendenti dalla Cina o da altri Paesi per materie prime strategiche, occorre riciclare al meglio e recuperare prodotti che paghiamo per essere smaltiti e ripaghiamo per poterli reimportare.

La parola chiave per le imprese è semplificazione: l’Europa saprà attuarla? E cosa possono chiedere le Pmi alle istituzioni Ue in questo senso?

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Il salto qualitativo che dobbiamo fare è considerare che l’Ue di cui si parla non è l’Europa pre-Lisbona in cui decideva la Commissione, punto e stop mentre gli Stati avevano un limitato potere decisionale finale. L’Europa oggi è un insieme di 27 Paesi che decidono per via governativa. Quando si dice l’Europa si fa riferimento a un processo decisionale che in parte viene dalla Commissione e in parte – in grossa parte – affida il potere decisionale ai 27 Governi che la compongono.

Quando si parla di Pmi è, dunque, fondamentale iniziare a “guardare in casa propria”. È stato facile nei decenni dire che l’Europa non ha fatto nulla per le Pmi ma bisogna ricordare che le istituzioni europee non hanno il potere di agire. Non esiste una politica Europa per le Pmi, non perché l’Europa non lo voglia, ma perché non è dato dagli statuti e dai trattati, e non esiste una competenza europea specifica.

Il vulnus, casomai, è che non possiamo parlare di 27 politiche statali per le Pmi: il fatto è che in Europa esistono centinaia di politiche per le Pmi. C’è la politica europea generale, poi ci sono le politiche nazionali, poi ci sono le competenze regionali, poi quelle provinciali e infine quelle locali. Non è possibile. Il risultato di questo è il moltiplicarsi di politiche e norme che giustamente fanno arrabbiare gli imprenditori.

Alcuni mesi fa in un importante incontro avuto ad Atene, dove abbiamo lanciato l’idea del difensore civico finanziario per le Pmi, ho proposto di arrivare a uno statuto delle Pmi a livello europeo, che abbia la semplificazione normativa come principio e arrivi a un trattamento fiscale comune in tutti i Paesi che superi l’attuale frammentazione.

Oggi i problemi ci sono e sono evidenti: difficoltà nell’accesso ai bandi, nell’offrire prodotti e servizi all’estero, differenze di trattamento sul costo del lavoro con conseguente concorrenza sleale tra imprese.

Non solo verso Paesi extra Ue, anche dentro l’Europa bisogna omogeneizzare i trattamenti fiscali e i costi del lavoro, e rendere più equa la concorrenza. Non sarà facile raggiungere questo obiettivo perché l’Ue non ha una competenza esclusiva, può solo giocare un ruolo di impulso di carattere generale. Ma su questo tema sono convinto che dobbiamo anche guardare a casa nostra. Cosa possiamo fare? Noi abbiamo chiesto di imporre agli Stati una semplificazione. Aspettiamo il documento better legislation e vediamo se porterà buoni consigli.

Bandi europei: tanti ma complessi. Come si può arrivare a renderli a portata di Pmi?

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L’Italia è il paese che presenta il maggior numero di progetti (40%) per ottenere finanziamenti europei ma la qualità media è molto bassa. I bandi europei, lo premetto, non sono inarrivabili ma sono molto difficili perché correlati alla capacità di essere bravi, innovativi, legati a network e a centri di ricerca o di innovazione molto importanti e di grande visione. Quindi inavvicinabili no, difficili sì, perché deve essere elevata la qualità dell’accompagnamento alle nostre imprese. E il problema non sta nella dimensione. Le dimensioni delle imprese a cui i bandi sono dedicati sono gli stessi per tutti. Il tema è la qualità della proposta.

Parliamo di transizione ecologica: il rischio è che le nostre imprese sostengono alti costi, mentre altri Paesi le ignorino, aumentando il gap di competitività. Come ovviare a questo problema?

Ci sono due grandi giocatori di serie A, Cina e Usa, che detengono potere economico, finanziario e militare. Poi ci sono due giocatori di seconda fascia: Europa e Russia, che hanno potere industriale ma non potere economico finanziario pari ai due grandi ma stanno giocando come leader mondiali. Ma come giocare alla pari in termini di transizione ecologica? Introducendo standard di medesimo livello a livello mondiale. L’alternativa sarebbe giocare in casa con enormi costi lasciando ad altri il gioco libero. Senza toccare aspetti etici, pure importanti, l’aspetto normativo negli accordi bilaterali è fondamentale: imporre standard sociali e ambientali anche a paesi terzi è un grande vantaggio ed è quello che l’Europa può fare. Ma la domanda che dobbiamo porci è: vogliamo giocare da giocatori di serie A? Tra le proposte istituzionali che speriamo si realizzino nel quadro europeo deve entrare dunque l’abbandono in molte parti dell’unanimità. Altrimenti non arriveremo mai a decisioni veramente europee e non frutto di compromessi.

Tutelare il marchio a livello europeo è un tema del quale si discute e che divide molte imprese: la normativa è dalla parte delle Pmi?

La direzione c’è ma la complessità è grande. La proprietà intellettuale è un argomento vasto e ha una segmentazione nazionale articolata. Certo che bisognerebbe arrivare a una brevettazione europea esclusiva, ma su questo c’è ancora molto da fare. La tutela della proprietà intellettuale a livello nazionale ha tuttavia sempre meno senso: serve un salto di qualità. E questo è un altro di quegli esempi in cui la dimensione nazionale è troppo piccola. Ormai non ha più senso parlare di una normativa sulla proprietà intellettuale basata sugli stati nazionali europei quando la comunicazione e la capacità di trasferire informazioni a livello globale con un semplice clic è alla portata di tutti. Purtroppo, come nel 95% delle norme che potrebbero semplificare la vita alle imprese, anche in questo caso siamo di fronte alla resistenza degli Stati. E questo perché il tema delle Pmi ha appeal per la politica, perché Pmi significa società, collettività, famiglie e un capitale sociale per ogni singolo territorio. Tuttavia non è spezzettando le competenze e dicendo che ognuno può mettere bocca su ogni tema con l’intento di aiutare Pmi che si arriva ad aiutarle davvero.

La scarsa patrimonializzazione delle Pmi, anche alla luce di Basilea III, rischia di diventare un problema: si possono pensare azioni europee per rafforzare le piccole e medie imprese?

C’è una differenza importante tra Paesi e tradizioni imprenditoriali. Finché però si continua, e voglio essere provocatorio, a privilegiare lo slogan del “piccolo a tutti i costi”, con tutti i pregi e i difetti che ne derivano, senza tenere in considerazione la necessità dei capitali e del credito, il problema si porrà. Ma credo che almeno in Italia sarà difficile poter arrivare a medio e breve termine a un cambiamento. Siamo di fronte a un fatto culturale e di sistema, un sistema che privilegia l’essere piccolo a scapito delle possibilità che essere più dimensionato e strutturato implicherebbe in termini di vantaggi sul fronte dell’accesso ai capitali. Tuttavia, con il tempo e con opportune politiche e sostegni, bisognerà arrivare a fare entrare nel nostro patrimonio genetico il tema della capitalizzazione e della patrimonializzazione. I tentativi sono numerosi: gabbie dimensionali e valore artigiano non sono in contraddizione a livello europeo perché i modelli dell’artigianato, non solo tedesco, non hanno limitazioni dimensionali. L’artigianato in questi Paesi è un fatto solo qualitativo. In Italia manca l’ultimo miglio, che viene dal coraggio di chiedere l’abolizione della legge sull’artigianato. O meglio, l’abolizione dei limiti dimensionali per l’artigianato. Perché non è una specificità, ormai sta diventando un limite, specie per le imprese che operano con l’estero. E, per queste imprese, il passaggio a una impresa patrimonializzata e capitalizzata è un passo indispensabile.

Materie prime e dipendenza dall’estero: è un problema che colpisce al cuore centinaia e migliaia di Pmi. Che politiche può perseguire l’Ue per limitare i danni di un incremento dei prezzi in taluni casi stratosferici e arginare la crisi degli approvvigionamenti?

La globalizzazione ha portato all’allungamento delle catene del valore al punto che le aziende di maggiori dimensioni hanno strutturato una rete di fornitura internazionale. Ciò non ci esime dal dire che sono mancate scelte di politica economica. Più o meno inconsapevolmente – io dico consapevolmente - assecondando questo processo e non capendo l’importanza di trattenere le produzioni strategiche, pure difficilissimo in un mercato aperto. Non è solo una scelta aziendale, ma anche di politica economica e industriale nazionale quella di facilitare il mantenimento di alcune produzioni sostenibili in Italia. Avviene invece che, grazie alla possibilità di attrarre o di facilitare l’attrazione di investimenti dall’estero, il nostro patrimonio di Pmi più interessanti dal punto di vista produttivo, commerciale e strategico viene acquistata da competitor multinazionali, a volte in aperta competizione con soggetti italiani che non hanno voluto/potuto/saputo entrare nell’acquisizione. La politica europea in questo senso è molto lucida e tenta di invertire il processo arrivando non solo facilitare ma a favorire finanziariamente il consolidamento di produzioni che sono funzionali alla nostra minore indipendenza dai Paesi extra Ue. È arrivato il momento in cui dovrebbe esserci una politica industriale vera a livello europeo, non basata sul consenso del più forte o delle convenienze dei singoli paesi ma fondata su una strategia che assicuri al nostro continente il mantenimento in alcuni settori di una leadership che anche i nostri imprenditori sentano come un sostegno assoluto per essere meno esposti agli eventi esterni.