La grande fuga che non c'è: perché i dazi di Trump falliscono

Trump voleva riportare la produzione negli Usa coi dazi. Fallimento totale: solo il 2% delle aziende italiane ci pensa. L'Europa si autoesclude dal proprio mercato

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Le catene di fornitura globali stanno attraversando una trasformazione epocale che investe direttamente il cuore del sistema produttivo europeo. Dai fenomeni di nearshoring alle nuove tensioni geopolitiche, dalla crisi silenziosa della subfornitura manifatturiera alle strategie di diversificazione, emerge uno scenario complesso dove il Made in Italy rappresenta al tempo stesso una risorsa strategica e una sfida competitiva. L’analisi della professoressa Valentina Meliciani, ordinario di Economia Applicata presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma e direttrice del Luiss Institute for European Analysis and Policy, offre una lettura approfondita delle dinamiche in atto e delle prospettive per un tessuto industriale chiamato a reinventarsi tra “crescita anemica” e nuove geografie commerciali.

L’Europa sta attraversando una trasformazione profonda delle sue strutture produttive, descritta da diversi analisti più come un “logoramento lento” che come una crisi improvvisa. Le catene di fornitura globali, pilastri dell’architettura economica post-Guerra Fredda, stanno subendo una riconfigurazione che tocca il cuore del modello europeo di sviluppo industriale.

I dati dell’Eurochambres Economic Survey 2025, basato su 41.941 risposte di imprenditori in 27 paesi europei, delineano un quadro di cauto ottimismo mitigato dall’incertezza: le aspettative per le vendite export rimangono negative per il secondo anno consecutivo, gli investimenti languono e il sentiment imprenditoriale si attesta su livelli preoccupanti.

Parallelamente, la subfornitura manifatturiera europea vive quella che la letteratura economica inizia a definire una silent crisis: un processo di destrutturazione che procede senza clamore, ma con effetti devastanti sul tessuto produttivo continentale: fabbriche che chiudono senza clamore, distretti industriali che si svuotano, catene del valore che si frammentano. L’Osservatorio Unioncamere sulla crisi d’impresa, nella sua seconda edizione, documenta un incremento significativo delle procedure concorsuali nel quadriennio 2021-2024, con particolare concentrazione proprio nei settori della manifattura e della subfornitura.

L’Eurochambres Economic Survey 2025 conferma questa tendenza a livello europeo: le aspettative per l’occupazione nel 2025 rimangono preoccupanti (“rather grim”) con un ulteriore leggero declino dell’indice Employment. Il rapporto attribuisce questo risultato alle sfide affrontate da settori specifici come trasporti, agricoltura e manifattura, particolarmente colpiti dalle interruzioni delle catene di approvvigionamento, oltre che dall’aumento dei costi energetici.

Ma è proprio in questo contesto di apparente declino che possono emergere dinamiche controintuitive e potenzialmente trasformative.

LA RICONFIGURAZIONE DELLE CATENE GLOBALI

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Le catene globali del valore sono in rapido cambiamento. La pandemia, la guerra in Ucraina, la rivalità tra Stati Uniti e Cina, il ritorno dei dazi e l’aumento dell’incertezza geopolitica hanno spinto molte imprese a ripensare i propri modelli produttivi. In questo scenario, l’Italia si trova in una posizione delicata: un tessuto industriale fortemente legato all’export, un Made in Italy riconosciuto a livello globale, ma anche una vulnerabilità crescente sul fronte della subfornitura e dell’accesso ai mercati.

Negli ultimi anni si parla sempre più di reshoring, nearshoring e friendshoring: strategie che spingono le imprese a riportare la produzione più vicina ai mercati di consumo o a paesi politicamente affini. Ma cosa dicono i dati? «Si osserva una tendenza all’avvicinamento geografico dei fornitori (nearshoring), ma è ancora presto per capire se si tratti di un fenomeno congiunturale o strutturale» spiega la professoressa Valentina Meliciani. «Questa tendenza ha implicazioni sia per le grandi imprese che partecipano direttamente alle catene globali del valore, sia per le piccole e medie imprese spesso subfornitrici nella filiera produttiva».

IL PARADOSSO DEI DAZI AMERICANI: RESISTENZA ALLA RILOCALIZZAZIONE

Uno degli aspetti più controintuitivi emerge dall’indagine condotta dal Centro Studi Tagliacarne- Unioncamere su circa 5.000 imprese italiane (aprile-giugno 2025), focalizzata su strategie di risposta ai dazi americani, percezione dei rischi geopolitici e diversificazione dei mercati.

«La survey mostra che le Pmi italiane percepiscono la Cina come principale area di rischio per le forniture, con le piccole imprese preoccupate addirittura per i rischi legati alle forniture da parte delle stesse aziende italiane». Un dato che, secondo la professoressa Meliciani, rivela la fragilità crescente delle reti produttive nazionali.

«Altro punto interessante riguarda i dazi USA: la politica dei dazi di Trump non sembra incentivare delocalizzazione produttiva negli Stati Uniti. La percentuale delle aziende intervistate intenzionate a trasferire il processo produttivo è pressoché pari a zero – sottolinea la professoressa Meliciani – L’idea americana secondo cui i dazi possano riportare la produzione negli USA non trova riscontro nelle risposte delle imprese italiane. Se per le piccole imprese è un risultato prevedibile, sorprende che la stessa tendenza si riscontri anche tra le medie e grandi imprese, con una percentuale che si attesta intorno al 2%, quindi estremamente bassa».

Secondo la survey del Centro Studi Tagliacarne, le strategie più comuni adottate dalle imprese per mitigare i rischi derivanti dai dazi si concentrano su tre direttrici principali: aumentare i prezzi nei mercati esteri, individuare mercati alternativi e consolidare i rapporti con fornitori strategici. «Le percentuali delle imprese che intendono reagire con un aumento dei prezzi di prodotti e servizi si differenziano, con un 15% relativo alle piccole imprese tra i 5 e i 49 addetti e un 33,2% per le imprese medio-grandi tra i 50 e 499 addetti; mentre punterà sul rafforzamento del mercato UE il 25,3% delle piccole imprese e circa il 30% delle medio-grandi – continua Meliciani – Particolarmente rilevante è la preferenza geografica: emerge una chiara predilezione per i mercati dell’Unione Europea rispetto a quelli extra-UE. Un segnale che conferma il nearshoring come orientamento delle strategie aziendali».

IL “FARSHARING” EUROPEO: QUANDO IL MERCATO INTERNO SI AUTOESCLUDE

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L’analisi delle tavole input-output rivela un fenomeno che la professoressa Meliciani definisce “farsharing”: il mercato europeo ha progressivamente assorbito meno beni prodotti all’interno dell’Unione, orientandoli sempre di più verso paesi extra-UE, in seguito a un calo della domanda interna.

«In Europa - a partire dalla crisi finanziaria - è stato messo in atto un processo che abbiamo chiamato di farsharing. In pratica, quando ci riferiamo alle catene del valore, parliamo di catene di fornitura: ossia, importazione di beni e servizi utilizzati per produrre beni finali all’interno delle catene» spiega Meliciani. Il fenomeno presenta una doppia dimensione critica: «È però interessante andare a guardare anche ai mercati di sbocco: un paese partecipa come produttore di beni e servizi che vende all’interno delle catene. Quello che emerge è che dopo la crisi finanziaria il mercato europeo ha assorbito sempre meno i beni prodotti all’interno dell’Unione Europea, che si sono diretti sempre di più verso paesi extraeuropei, verosimilmente per un calo della domanda interna».

Questa dinamica sottolinea l’urgenza di politiche di rafforzamento del mercato interno: «Nei prossimi anni sarà fondamentale rafforzare il Mercato Unico europeo, stimolando gli investimenti e i consumi interni e favorendo la crescita delle imprese in tutta l’Unione. L’obiettivo è un mercato unico più accessibile, efficiente e competitivo, che funzioni non soltanto come rete di fornitura ma anche come mercato di sbocco per le nostre piccole imprese».

I dati dell’Eurochambres Economic Survey 2025 suggeriscono quella che il rapporto definisce una “tentative recovery in international as well as intra-European trade”, sottolineando il ruolo crescente del mercato unico come fonte di crescita economica.

IL MADE IN ITALY COME ASSET STRATEGICO NELL’INSTABILITÀ GLOBALE

Uno dei cambiamenti culturali più significativi documentati dalla ricerca del Centro Studi Tagliacarne riguarda la crescente consapevolezza geopolitica delle piccole e medie imprese. L’indagine rivela un dato emblematico: «Oggi il rischio maggiormente percepito dalle aziende italiane è geopolitico» osserva la professoressa Meliciani. «Questo rappresenta un’attenzione nuova rispetto al passato, quando le imprese si concentravano sul prezzo dei beni e sulle rotte commerciali, trascurando gli aspetti geopolitici internazionali».

In questo scenario il Made in Italy deve puntare sulle sue caratteristiche distintive come vantaggio competitivo strategico. «Per quanto riguarda le produzioni del Made in Italy – sottolinea Meliciani – si tratta di beni con una bassa elasticità della domanda in quanto vengono acquistati per la loro qualità. Questa caratteristica comporta implicazioni strategiche vitali perché i consumatori americani o di altri paesi ad elevato reddito potrebbero continuare ad acquistare i prodotti Made in Italy nonostante l’aumento dei prezzi».

Come evidenziato anche nelle risposte delle imprese alla survey del Centro Studi Tagliacarne, «c’è un diffuso ottimismo sul fatto di poter continuare ad esportare questi beni, nonostante l’aumento del prezzo. Tuttavia, la strategia non può limitarsi alla resistenza sui mercati tradizionali in quanto diventa sempre più decisivo aprirsi anche a mercati in forte crescita».

NUOVE GEOGRAFIE COMMERCIALI

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Di fronte alle incertezze del mercato americano e alla “crescita anemica” europea, l’Italia può guardare a mercati emergenti in rapida espansione. «Pensiamo all’India, all’Arabia Saudita, ai paesi Brics che crescendo possono diventare importanti mercati di sbocco – aggiunge – La strategia dovrebbe articolarsi su una doppia direttrice, da a un lato il mercato europeo e dall’altro maggiori accordi commerciali con i mercati emergenti che possono costituire un’importante sostituzione del mercato americano e con i quali è possibile stipulare accordi di libero commercio». Particolarmente interessante è l’osservazione sulla reciprocità degli interessi: «Parliamo di mercati che stanno anch’essi subendo le restrizioni derivanti dal protezionismo americano, pertanto c’è una spinta a una maggiore apertura».

L’esempio dell’accordo commerciale tra Unione Europea e i Paesi del blocco Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay) è emblematico: «Nonostante le resistenze di alcuni paesi europei preoccupati dagli effetti su produzioni locali, cresce la consapevolezza dell’importanza di cercare nuovi mercati» osserva Meliciani. L’accordo UE-Mercosur, raggiunto politicamente dopo oltre vent’anni di negoziati, è un’intesa di libero scambio che vuole garantire maggiore accesso a materie prime critiche e a nuovi mercati per le imprese europee, con dazi ridotti o eliminati».

Le imprese italiane, soprattutto nei settori industriali (macchinari, automotive, farmaceutica, chimica) potranno espandere l’export verso il Mercosur con condizioni più favorevoli. Ma questa opportunità può essere colta solo attraverso un approccio che integri innovazione tecnologica, diversificazione geografica, rafforzamento delle competenze e, soprattutto, una nuova consapevolezza geopolitica che ha trasformato anche le più piccole imprese in attori globali consapevoli.

STRATEGIE DI RESILIENZA: IL DILEMMA ROBUSTEZZA-RESILIENZA

Per proteggersi dalle oscillazioni dei mercati e dai tempi di consegna incerti, le imprese stanno adottando strategie complesse. «Le imprese preferiscono muoversi verso strategie di diversificazione, al contrario di quanto ipotizzato dopo il Covid con un ritorno al local sourcing». Diversificare significa non dipendere da un unico fornitore, negoziare condizioni migliori, accedere a tecnologie e materie prime diverse, rispondere più agilmente ai cambiamenti del mercato.

Esiste, tuttavia, un problema di trade-off tra robustezza e resilienza delle catene, spiega la professoressa Meliciani. «La robustezza significa non interrompere la produzione anche quando c’è uno shock, grazie a tanti fornitori alternativi. Ma avere molti fornitori comporta svantaggi strategici: rapporti meno consolidati e quindi minore resilienza, cioè capacità di uscire rapidamente dallo shock. La scelta dipende dalle caratteristiche settoriali – puntualizza – Settori che producono beni non essenziali possono optare per un’interruzione temporanea della produzione per uscire più rapidamente dalla crisi. In altri settori, dove il processo produttivo non può essere interrotto, è invece importante diversificare per assicurare continuità alla produzione» continua l’economista.

Di fronte a queste sfide sistemiche, l’innovazione emerge come l’unico percorso praticabile per la sopravvivenza competitiva. Tuttavia, non tutte le imprese hanno la stessa capacità di innovare e il processo di selezione è già in corso. «Quello che possono fare le imprese è rispondere al mutato scenario rendendo i prodotti sempre più unici e difficilmente sostituibili, cercando al tempo stesso nuovi mercati. L’approccio deve essere necessariamente proattivo, perché il tessuto produttivo italiano presenta caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi, avendo la capacità non solo di esportare ma anche di diversificare le esportazioni sia in termini di tipologia di prodotti sia in termini di tipologia di mercati» osserva Meliciani. «È un’opportunità che deve essere colta».

VERSO UN NUOVO PARADIGMA DI COMPETITIVITÀ

L’analisi delle trasformazioni in corso nelle catene di fornitura globali rivela un quadro di complessità estrema che sfugge a letture semplicistiche di declino o crescita. L’Europa, e l’Italia in particolare, si trova di fronte a una sfida che richiede una riconfigurazione profonda del proprio modello di sviluppo industriale.

Il futuro delle catene di fornitura europee non sarà determinato da un ritorno al passato, ma dalla capacità di costruire un nuovo equilibrio tra competitività globale e resilienza territoriale, tra specializzazione produttiva e diversificazione strategica, tra efficienza economica e sostenibilità ambientale. In questo processo di trasformazione, il Made in Italy rappresenta non solo un brand, ma un paradigma di qualità e innovazione che può orientare l’intero continente verso un modello di sviluppo capace di competere nell’economia globale del XXI secolo. Paola Mattavelli

Fonti

  • Eurochambres Economic Survey 2025 (basato su 41.941 risposte di imprenditori in 27 paesi europei)
  • Osservatorio Unioncamere sulla crisi d’impresa (seconda edizione)
  • Indagine Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere su 4.500 imprese italiane (aprile-giugno 2025)
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