Dazi: alla ricerca di un equilibrio possibile (e provvisorio)
I dazi doganali sono sempre più al centro dell’attenzione, soprattutto alla luce della politica commerciale ancora più protezionistica prospettata da Trump

«La parola “dazio” è molto bella. Una parola che renderà di nuovo ricco il nostro Paese» ha detto Trump. Minaccia reale o strategia politica, viene da chiedersi. A partire da dal gennaio 2018, Trump ha avviato una politica protezionistica che potesse ridare vigore e forza al paese. Lo slogan “America First” si ripropone oggi in uno scenario di crescenti tensioni commerciali dove l’economia diventa un’arma geopolitica. I dazi doganali sono molto più di un incasso fiscale, nonostante sembrino rimandare a una geopolitica antica si tratta di strumenti di pressione politica più che mai attuali.
«In effetti i dazi, da non confondere con le sanzioni (come nel caso del commercio con la Russia) sono uno strumento di pressione politica giacché costituiscono un freno al commercio internazionale» spiega Fabrizio Marrella, professore ordinario di Diritto internazionale all’Università̀ “Cà Foscari” Venezia dove insegna Diritto internazionale, International Business Law e Diritto dell’Unione europea.
«Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, generazioni di economisti hanno sostenuto e dimostrato le virtù del libero scambio. Basti pensare che nell’800 ebbero grande successo le teorie economiche di Adam Smith e David Ricardo, non a caso due economisti inglesi, i quali dicevano che se ogni Stato produce alcuni beni a minor costo degli altri è bene che produca solo quelli perché, col libero scambio ed il libero mercato, guadagnano tutti sprecando meno risorse. In questa narrativa, ci si dimentica però di ricordare che quello era un periodo in cui la Gran Bretagna era il leader dell’economia mondiale. Pertanto, aveva interesse a vendere a tutti gli altri Paesi convincendoli ad eliminare ogni loro dazio e barriera non tariffaria. La storia dei trattati economici internazionali dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi è coerente con quella impostazione: trattati per liberalizzare gli scambi e gli investimenti onde favorire la libera circolazione delle merci e dei servizi (non certo dei lavoratori). Così, dapprima il GATT e poi l’Organizzazione mondiale del commercio, insieme ad oltre un migliaio di trattati di protezione degli investimenti diretti esteri sono stati l’architrave della globalizzazione dell’economia, che non è, come molti ingenuamente credono, un fenomeno “naturale” ma è stato pilotato tramite quei trattati».

«Ma – prosegue - se la globalizzazione dell’economia dipende da quei trattati, ben si capisce che, posto che quegli strumenti sono stipulati dagli Stati, gli Stati possono anche disfare quello che hanno già fatto. Per ripartire su basi nuove quando l’economia internazionale andrà in modo diverso da ora, ove gli Stati Uniti hanno un chiaro deficit della bilancia commerciale con diversi Paesi, tra cui quelli europei».
Quindi, quando le cose si mettono male nell’economia dei Paesi leader – ieri, negli anni ’30 del secolo scorso, è accaduto con la Gran Bretagna ora in declino e adesso accade negli Stati Uniti – si manifesta sempre un movimento opposto, chiarisce il professor Marrella: «Gli Stati (oggi gli Stati Uniti) si chiudono a riccio, rimettono in un polveroso cassetto quelle belle e forse giuste teorie economiche su cui hanno fatto studiare mezzo mondo (ma tanto gli economisti non hanno mai azzeccato nessuna previsione economica) e la politica, prende in mano la situazione, invocando il nobile argomento della “difesa degli interessi nazionali”. Di chi? Non certo dei consumatori che desiderano comprare merci migliori a prezzi sempre più bassi, grazie alla globalizzazione dei mercati. Piuttosto, a causa della globalizzazione, sono gli interessi di alcuni produttori nazionali che rischiano di andare fuori mercato a prevalere, soprattutto se riescono a lobbizzare i politici di turno e a unire la loro voce ai ceti medi più poveri, a quei tanti lavoratori che temono di perdere il posto proprio perché i primi, essendo il costo del lavoro minore in mezzo mondo, preferiscono licenziare in casa e costituire filiali produttive all’estero».

«Così hanno fatto tutti con la Cina anche se ora si parla di reshoring, ossia di riportare a casa o verso un Paese più vicino ed “amico” (friendshoring) la produzione – aggiunge – I libri di diritto internazionale mostrano bene il “pendolo della storia” giacché la storia economica mondiale e delle sue regole giuridiche è segnata da corsi e ricorsi storici, tra pulsioni di globalizzazione e nazionalismo economico con effetti opposti sulle relazioni internazionali. Ed allora ben si comprende la fase in cui ci troviamo e perché, prevalendo oggi la politica sulla logica economica e giuridica (i trattati vigenti che ora verranno rimessi in discussione se non estinti) si arriva direttamente alla “guerra commerciale”, uno degli aspetti più importanti della più generale “guerra economica” che si manifesta in un aumento improvviso e generalizzato dei dazi, normalmente nei confronti di uno o più Paesi target».
«L’obbiettivo ricorrente di un Governo che impone i dazi è quello di proteggere le sue imprese dall’invasione delle “merci straniere” anche se più avanzate di quelle domestiche, ad esempio le auto elettriche cinesi e, nel contempo, di rafforzare l’industria nazionale dietro lo schermo dello Stato per poi, in un momento successivo, scendere a nuovi patti con i Paesi concorrenti e riaprire i mercati delle merci dove si è più forti. Questo è ciò che il Presidente Trump ha sicuramente in mente».
PROTEZIONISMO: COME MISURARLO?
In un mondo sempre più frammentato sul fronte economico e politico, la globalizzazione rallenta e i Paesi alzano nuove barriere commerciali. Diventa cruciale capire quali settori economici rischino di più dall’inasprimento delle barriere doganali e quali conseguenze concrete scaturiscano dal protezionismo (effetti su prezzi e quantità) per consumatori e imprese dell’Ue, Italia e Usa.

«In virtù di quanto detto poc’anzi, i dazi frenano il commercio internazionale perché, per fare un esempio, se un produttore italiano di scarpe da uomo esporta a New York, per un valore pari a 100 dollari, e l’Amministrazione Usa decide di adottare un dazio del 50%, quello stesso prodotto, le scarpe, costeranno a New York almeno 150 dollari. Molto probabilmente, ne venderà di meno e il suo importatore ridurrà gli ordini. Certo, la bilancia commerciale con gli Usa è decisamente a nostro favore e ciò significa che noi esportiamo più di quello che importiamo dagli Stati Uniti, ed ecco che le barriere doganali sono come delle muraglie economiche che uno Stato decide di alzare per frenare l’ “immigrazione” di merci troppo competitive con quelle che produce a livello domestico – puntualizza Marrella – Ora, posto che il Presidente Trump, come ha già dichiarato, oltre a mettere dei forti dazi sulla Cina, vuole imporne anche all’Unione Europea e al Canada tutto il gioco, ed è un gioco politico, diventerà quello di stabilire il valore dei dazi che applicherà alle nostre merci e quali merci quei dazi colpiranno».
«Pertanto: è vero che Trump se la prenderà con l’Unione Europea giacché ha già annunciato un aumento generale del 10% fino al 20% dei dazi in aggiunta ai dazi già esistenti. Ciò pare parzialmente confermato dalle stime del National Economic Board svedese che prevede, per l’Italia, minori esportazioni verso gli Usa del 16%, a fronte di una riduzione del complesso delle esportazioni europee pari al 17%, ma con impatto principalmente nei settori meccanico, farmaceutico e chimico. Anche il settore della moda è a rischio – aggiunge – Ma poi è altrettanto vero che nel gioco delle alleanze, che qui va a nostro favore, conta il rapporto speciale che gli Stati Uniti hanno con l’Italia ed anche il buon rapporto con la Presidente Meloni che ha sempre sostenuto Trump. Ciò significa che dovendo scegliere quali merci colpire con quei dazi, quando ci si mette a fare la lista delle merci da colpire, tra le automobili (al cuore dell’economia tedesca) e i prodotti del made in Italy dei nostri imprenditori, mi aspetterei un migliore trattamento per i nostri prodotti».
GUERRA COMMERCIALE, ATTACCO ALLA GLOBALIZZAZIONE?

Il dazio, dunque, è uno strumento chiave del protezionismo (e arma della guerra commerciale). Ma quali sono le implicazioni di una guerra commerciale sulla stabilità economica e geopolitica globale? E in che modo una guerra commerciale può influire sulle catene di approvvigionamento?
«Nel caso delle catene di approvvigionamento, la maggior parte dei beni finali moderni comprende materiali esteri e nazionali aggiunti in diverse fasi della produzione e distribuiti attraverso reti di fornitura mondiali. Questa struttura dei flussi aziendali può essere incisa in funzione del luogo in cui un’impresa italiana ha costituito una filiale o acquista beni da rivendere negli Stati Uniti. Peraltro, sebbene siano guidate da imprese multinazionali, le catene di fornitura globali incorporano sempre più spesso anche le piccole e medie imprese – prosegue Marrella – Dunque, occorrerà seguire l’evoluzione dei dazi americani e i Paesi dove colpiranno (sicuramente in Cina) preparandosi a rilocalizzare eventuali produzioni in quei Paesi. Un’altra strategia è quella di trasferire gli oneri doganali, che nei contratti di vendita e subfornitura, sono allocati tramite gli Incoterms, in modo tale da non subirne gli effetti. È giunta l’ora per le nostre imprese di stipulare dei buoni contratti di vendita internazionale affidandosi a veri professionisti, avvocati esperti di diritto del commercio internazionale, giacché l’aumento dei dazi produce un aumento generale dei costi ed anche un aumento del tasso di litigiosità nelle operazioni commerciali internazionali delle imprese. Tutto ciò deve essere previsto e bene regolato nei contratti».
SUL RISCHIO DI UNA GUERRA COMMERCIALE
Il rischio, come sempre, è di innescare reazioni i cui effetti non sono mai del tutto ipotizzabili. L’Europa è chiamata a operare una scelta complessa di fronte all’incalzare del neo-protezionismo americano. Sono in arrivo dazi Ue in risposta a Donald Trump o si opterà per la via diplomatica? Cosa aspettarsi, qual è lo scenario migliore e quale il peggiore?
«L'area dell'euro è profondamente legata alle catene industriali globali, più degli Stati Uniti e della Cina. In questo contesto, l'Ue ha il massimo interesse a sostenere le proprie relazioni commerciali sia con gli Stati Uniti, sia con gli altri Paesi e le organizzazioni economiche internazionali così da poter compensare ogni turbolenza nei rapporti economici internazionali. I meccanismi e gli strumenti di politica commerciale difensivi devono sempre essere valutati in base alla loro compatibilità con il diritto dell'Omc e con la corrispondente legislazione secondaria dell'Ue – commenta Marrella – L'idea di autonomia strategica europea ha origine nei settori della sicurezza e della difesa, ma è andata oltre questi ambiti estendendosi alle politiche estere e commerciali, dopo che l'Ue ha presentato la sua nuova strategia commerciale nel 2022. La pandemia di Covid-19 e, più recentemente, l'invasione russa in Ucraina hanno reso evidente la vulnerabilità delle GVC e la necessità di mantenere catene di approvvigionamento e flussi commerciali funzionanti e resilienti durante tali crisi. Pertanto, se con gli Stati Uniti la Ue si troverà a dover fronteggiare una guerra commerciale, la Ue manterrà con gli altri Paesi le relazioni economiche ed i trattati già in vigore, incluso il funzionamento dell’OMC. Pertanto, le imprese italiane hanno sicuro interesse a diversificare i propri mercati di sbocco in nuove aree come quelle dell’America latina, dell’Africa e del Sud est asiatico o del Giappone, giacché il mare è calmo con questi Paesi». Paola Mattavelli