Geopolitica e filiere globali: come possono restare competitive le Pmi
La globalizzazione si frantuma, i costi salgono e i mercati si spostano. Le Pmi italiane devono decidere ora: adattarsi e innovare o rischiare l’irrilevanza: ne parliamo il 10.12 a Gallarate. Iscriviti

Tra tensioni internazionali, nearshoring e politiche industriali insufficienti, le Pmi affrontano un mondo più frammentato. Su queste dinamiche interviene la riflessione di Matteo Giuliano Caroli, ordinario di Gestione delle imprese internazionali alla Luiss Guido Carli, che evidenzia come il modello su cui molte aziende italiane hanno costruito competitività stia mutando.
Le tensioni geopolitiche e il progressivo deterioramento dei rapporti tra grandi potenze stanno riscrivendo le regole dell’economia mondiale. Dopo tre decenni di globalizzazione spinta, caratterizzati dall’espansione delle catene del valore globali e dal libero scambio come architrave dello sviluppo, il paradigma si sta incrinando. L’ordine internazionale vira verso la frammentazione, generando rischi sistemici per le economie aperte come quella italiana. Un quadro complesso che evidenzia la profonda trasformazione dei fondamenti competitivi delle aziende italiane.
L’analisi di Matteo Giuliano Caroli, esperto di strategia internazionale d’impresa, che si concentra sui processi di internazionalizzazione delle Pmi, sulle dinamiche delle catene globali del valore e sull’impatto delle tensioni geopolitiche sui modelli di business internazionali.
UN ORDINE GLOBALE SEMPRE PIÙ INSTABILE
«La situazione odierna è in continuo divenire, non abbiamo più le certezze del passato. Fino al 2020 il modello prevalente era quello della catena del valore globale», spiega Caroli. «Le imprese organizzavano i processi produttivi su scala internazionale in contesti o con partner che garantissero il miglior vantaggio di costo e la migliore qualità, con produzioni anche molto lontane dai luoghi di assemblaggio e dai mercati finali».
Il modello delle catene globali del valore, che per decenni ha rappresentato la spina dorsale dell’economia mondiale, mostrava una logica formalmente inattaccabile che si declinava diversamente a seconda dei settori ma sempre fondata sulla fluidità logistica e sul libero scambio. «La pandemia ha rappresentato una frattura sistemica, mettendo in luce la fragilità di filiere troppo lunghe e interdipendenti – ricorda Caroli – Finché tutto funziona, la catena globale è efficiente, ma eventi straordinari espongono a rischi e costi maggiori».
GEOPOLITICA E BUSINESS RISK: LA NUOVA EQUAZIONE COMPETITIVA

A questa vulnerabilità strutturale si è aggiunta la crescente instabilità geopolitica, dal deteriorarsi delle relazioni Usa-Cina alla guerra in Ucraina e alle tensioni in Medio Oriente. «Per decenni, abbiamo vissuto e lavorato in un mondo orientato alla collaborazione – osserva Caroli – Oggi, purtroppo, la cooperazione è più incerta e comunque poggia su basi più fragili, ciò non significa che i modelli globali siano impossibili ma certamente più rischiosi e complessi da gestire».
Il processo di de-risking – ovvero la riduzione della dipendenza da supply chain lontane e fragili – è già in essere. Molte imprese stanno riconsiderando le proprie catene produttive, privilegiando strategie di nearshoring, spostando stabilimenti in paesi geograficamente vicini per ridurre tempi, costi e vulnerabilità, oppure di reshoring, riportando la produzione entro i confini nazionali per rafforzare controllo e resilienza. «Le aziende cercano aree operative e mercati più sicuri dal punto di vista geopolitico», spiega Caroli. «Ricollocare produzioni richiede investimenti significativi, tempi lunghi e può generare rischi di perdita di competitività, soprattutto per le Pmi italiane che spesso non hanno le dimensioni necessarie per reggere simili transizioni in autonomia».
LIBERO SCAMBIO: DA ARCHITRAVE A VARIABILE INCERTA
Un altro fattore critico è rappresentato dal rischio di restrizioni al commercio internazionale. «Come dicevo, le catene del valore globali funzionano se c’è libero scambio», avverte Caroli. «Se vengono introdotti dazi o barriere, l’intero meccanismo rischia di diventare insostenibile perché il prodotto diventa meno competitivo o inaccessibile».
L’analisi cambia prospettiva quando si considera la realtà delle piccole e medie imprese italiane, in particolare quelle artigiane. «I terzisti di primo o secondo livello non organizzano la produzione su scala globale, ma subiscono le dinamiche dell’impresa capocommessa, senza poterle gestire direttamente – spiega – Della piccola impresa di filiera, a mio avviso, rimane il mantra fondamentale: competitività basata sulla capacità di realizzare un prodotto, un componente, un semilavorato di altissimo livello a un prezzo competitivo. E fino a quando rimane questa capacità – e molte nostre piccole e medie imprese sono eccellenti a livello internazionale – restano integrate nelle reti globali».
MADE IN ITALY: TRA INNOVAZIONE E CAPITALE REPUTAZIONALE

Le imprese più competitive costruiscono la loro presenza internazionale come estensione naturale di competenze tecniche, gestionali e relazionali mature, spesso difficili da replicare. Questi percorsi di crescita si fondano su due dimensioni chiave: competenze distintive grazie a tecnologie di nicchia, design, qualità ingegneristica o artigianale; relazioni fiduciarie con reti costruite nel tempo con clienti, fornitori e partner esteri. «Il vero vantaggio competitivo del sistema produttivo italiano risiede in un mix unico di creatività, qualità manifatturiera, cultura d’impresa e capacità di costruire relazioni autonome e diversificate. Tuttavia, serve rafforzare le relazioni con nuovi mercati e fornitori, per ridurre la vulnerabilità a shock esterni».
In un contesto di frammentazione globale, anche l’innovazione diventa una prima linea di difesa competitiva. «Bisogna distinguere – precisa Caroli – tra una piccola impresa calzaturiera e una che produce componentistica. Hanno esigenze diverse, ma in entrambi i casi oggi la questione fondamentale è innovare: migliorare il prodotto, il processo produttivo e le performance ambientali». Resta però un problema strutturale: la produttività. «Questo – conclude – è il vero tallone d’Achille delle piccole imprese italiane».
AFRICA E INDIA: I MERCATI SU CUI PUNTARE
Guardando alle opportunità future, Caroli individua alcune aree geografiche strategiche per l’internazionalizzazione delle imprese italiane. «Il programma Mattei, che punta a rafforzare le relazioni – non solo politiche ma anche economiche e produttive – con i Paesi dell’Africa Mediterranea e con quelli del Golfo, ha un enorme potenziale», spiega. «In queste aree le imprese italiane, soprattutto quelle di medie dimensioni, hanno un buon posizionamento. C’è un atteggiamento positivo verso l’Italia, la nostra cultura e il nostro modo di fare impresa e sono mercati vicini». Riguardo all’India, Caroli invita alla cautela: «È un mercato con potenzialità significative ma estremamente complesso. Serve un supporto da parte delle istituzioni, come ambasciate e Camere di Commercio all’estero, per affrontare tali complessità operative e culturali».
VERSO UN NUOVO PARADIGMA COMPETITIVO

Le imprese italiane non possono più limitarsi a inseguire mercati esteri o vantaggi di costo. Devono costruire modelli di business solidi, innovativi e sostenibili, capaci di reggere shock geopolitici e sfide ambientali. Come sottolinea Caroli, «molte imprese italiane restano sotto scala, senza la dimensione adeguata a competere a livello globale. Servono crescita dimensionale, managerializzazione, investimenti in capitale umano. Il capitalismo familiare ha rappresentato un punto di forza, ma rischia di diventare un vincolo se non evolve verso forme più strutturate».
La vera discriminante, ora, sarà la capacità di innovare e crescere. Chi saprà trasformarsi non solo resisterà, ma potrà rilanciare la propria posizione competitiva a livello internazionale. Per tutti gli altri, il rischio è l’irrilevanza.
Sintesi in 5 punti:
- Mutamento del contesto globale: le tensioni geopolitiche e la frammentazione dell’economia mondiale stanno cambiando profondamente il modello di internazionalizzazione su cui si basano molte imprese italiane.
- Rischi e vulnerabilità: le catene globali del valore sono sempre più esposte a rischi logistici, dazi e instabilità politica, con impatti particolarmente rilevanti sulle PMI italiane, spesso terziste di primo o secondo livello.
- Necessità di adattamento: le imprese stanno adottando strategie di nearshoring e reshoring, ma devono affrontare investimenti importanti e rischi di perdita di competitività, soprattutto le realtà più piccole.
- Innovazione e sostenibilità: l’innovazione tecnologica e ambientale è fondamentale per mantenere la competitività, mentre la produttività resta una sfida strutturale da superare, anche attraverso politiche industriali efficaci.
- Sfide di crescita e internazionalizzazione: per competere a livello globale, le PMI italiane devono crescere in dimensione e managerialità, supportate da istituzioni, e puntare su mercati strategici come Africa Mediterranea, Paesi del Golfo e India. Paola Mattavelli