Globalizzazione viva ma ammaccata: si va verso la globalizzazione bilanciata
Secondo Larry Fink, numero uno di BlackRock, a causa del conflitto in Ucraina il mondo cambierà radicalmente. Sebastiano Nerozzi, professore alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica dà ragione al Ceo statunitense, ma ne allarga la visione. «La ricerca spasmodica di economie di costo in ogni segmento produttivo è andata spesso a discapito della sostenibilità sociale e ambientale»

Il conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina è destinato a cambiare il mondo, in parte lo ha già cambiato. Tre le conseguenze principali per mercati ed economia: la fine della globalizzazione come la conosciamo, l’accelerazione delle valute digitali e un rallentamento della transizione energetica. Questa è la visione di Larry Fink, numero uno di BlackRock, che in una lettera agli azionisti ha fatto il punto sugli effetti della guerra.
Il Ceo del colosso finanziario che ha partecipazioni anche in società italiane (tra cui Unicredit, InteSanpaolo e Generali), ricorda come già la pandemia abbia messo a dura prova gli equilibri economici esistenti, ma è a causa di questa guerra che governi e aziende rivedranno le loro strategie, cercando di limitare in futuro la loro dipendenza dagli altri Stati, soprattutto per quanto riguarda l’energia. Fink pensa anche che le imprese cercheranno nuovi canali di approvvigionamento, col rischio di un aumento dei prezzi, che è già realtà (a febbraio al 5,9% nell’Eurozona e al 7,9% negli Stati Unit), e che peserà soprattutto su chi ha redditi più bassi. (Qui la lettera di Fink https://www.blackrock.com/corporate/investor-relations/larry-fink-chairmans-letter)
RE-SHORING E NEAR-SHORING

«L’analisi di Larry Fink è molto autorevole e ben argomentata», ammette Sebastiano Nerozzi, professore di Storia del Pensiero economico alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. «Negli ultimi anni, a partire dalla grande recessione e, in modo più marcato, a partire dal 2015, con i contrasti fra amministrazione Trump e Cina, c’è stato un rallentamento della globalizzazione», prosegue il professore, il quale sostiene che la pandemia e, adesso, la crisi Ucraina stanno rafforzando questa tendenza. Nerozzi conviene che le imprese occidentali, a partire da quelle americane, hanno iniziato un processo di re-shoring e near-shoring che ha invertito la precedente massiva tendenza all’off-shoring tipica della globalizzazione post-1989. «Tuttavia il punto di vista del Ceo di Black Rock è quello di un gigante dell’intermediazione finanziaria che ha guadagnato molto dall’iper-globalizzazione e adesso vede i rischi del cambiamento – ricorda il docente della Cattolica – Credo che la prospettiva di chi lavora nell’economia reale debba essere un po’ diversa».
Infatti, più che di deglobalizzazione, Nerozzi preferisce parlare di un «ribilanciamento della globalizzazione, ovvero di transizione verso una ‘globalizzazione bilanciata’». Il professore ha ricordato che nell’ultimo trentennio la globalizzazione ha spinto le nostre imprese a sperimentare nuove modalità organizzative all’insegna dell’internazionalizzazione e di un efficientamento dei costi; essa ha anche consentito a molti paesi emergenti di entrare da protagonisti nel mercato globale, in un gioco win-win che ha rotto i vecchi schemi di dipendenza Nord-Sud del mondo e ha favorito la crescita delle classi medie globali. «Tuttavia la globalizzazione è stato un fenomeno per certi aspetti parossistico e non del tutto positivo dal punto di vista economico, sociale e ambientale – chiarisce il professore di Economia – La ricerca spasmodica di economie di costo in ogni segmento produttivo (in primo luogo, costi del lavoro) è andata spesso a discapito della sostenibilità sociale e ambientale, aumentando molto le diseguaglianze all’interno di tutti i paesi e non stimolando a sufficienza una modernizzazione dei processi produttivi e organizzativi».
Dal punto di vista ambientale «l’enorme flusso di semilavorati (che componevano circa i 2/3 del commercio mondiale, ndr) si basava su costi energetici molto bassi, frutto di una superficiale valutazione dei vincoli di scarsità e dei rischi che oggi sono divenuti evidenti. Per molti anni abbiamo basato le nostre decisioni su una sistematica sottovalutazione dei rischi: le crisi finanziarie, la pandemia, le dinamiche geopolitiche e i processi di degrado ambientale sempre più rapido, sono qui a ricordarci che dobbiamo cambiare direzione». Per questo, per Nerozzi, «non è un male andare verso una ‘globalizzazione bilanciata’ che eviti gli eccessi e i rischi del passato».
COGLIERE LE NUOVE OPPORTUNITÀ

Questo sarà in ogni caso un processo che richiederà del tempo, allo stato attuale è necessario fare i conti con le conseguenze del conflitto tra Russia e Ucraina. «I costi immediati del conflitto sono evidenti», dice Nerozzi, la cui analisi è impietosa. C’è molta volatilità sui mercati e l’inflazione, cresciuta già nel 2021, è giunta a febbraio al 5,7% su base annua. L’Istat ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita dell’economia italiana, riducendole dello 0,7%, ma ha anche chiarito che ulteriori ribassi sono possibili. Le imprese, soprattutto quelle ‘energivore’ e quelle ancora gravate dai debiti accesi durante la pandemia, stanno soffrendo molto le conseguenze. La bolletta energetica delle imprese italiane è passata da 9 a 37 miliardi annui e aumenterà ancora se i prezzi non scenderanno. Anche i prezzi delle materie prime incidono negativamente sul costo degli input, aumentato di quasi il 15%. A gennaio la produzione industriale ha perso il 3,4% rispetto a dicembre, mentre l’occupazione ha smesso di crescere e potrebbe ridursi nei prossimi mesi. Anche le famiglie stanno sperimentando una riduzione del loro potere d’acquisto, come evidente dai dati sulla povertà pubblicati da Istat: i rincari di energia e beni alimentari stanno aumentando la povertà assoluta che tocca oggi il 7,5% delle famiglie, ovvero 5,6 milioni di persone. Di fronte a questo, secondo il professore «occorre fare sistema, rafforzando i vincoli di solidarietà sociale e accelerando gli investimenti necessari a renderci più autonomi dal punto di vista energetico».
Questa fase di incertezza può essere un’opportunità per le piccole e medie imprese italiane. «Ritengo che le nostre piccole e medie imprese, per la loro tradizione, per le competenze diffuse, per il loro posizionamento sui mercati più avanzati, per la loro capacità di innovazione, non devono temere i cambiamenti in atto, ma cercare, casomai, di cogliere le nuove opportunità che si apriranno, vicine o lontane che siano», afferma Nerozzi.
In ogni caso, secondo il docente della Cattolica, le imprese «devono cercare di riorientare strategicamente i loro rapporti di fornitura e di vendita puntando su partner commerciali che presentano profili di sicurezza e di rischio-paese inferiori. Per certi aspetti le imprese italiane possono guadagnare dalla maggiore incertezza sulle ‘catene lunghe’ della globalizzazione, rafforzando la loro attrattività come fornitori a corto raggio e ad alta affidabilità per imprese nazionali ed europee, così come per produttori globali non toccati direttamente dal conflitto».