Giovani e aziende: perché è tempo di mettere fine allo "strabismo ideologico" contro il lavoro manuale
Formare i lavoratori di ieri, oggi e domani per rendere l’azienda più attrattiva e competitiva, superando al contempo quello «strabismo ideologico che penalizza il lavoro manuale nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni». Ne parliamo con Daniele Marini, professore di Sociologia dei Processi Economici all’Università di Padova

Formare i lavoratori di ieri, oggi e domani per rendere l’azienda più attrattiva e competitiva, superando al contempo quello «strabismo ideologico che penalizza il lavoro manuale nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni». Ne è convinto di Daniele Marini, professore di Sociologia dei Processi Economici all’Università di Padova, che segnala come oggi «ci sia una percezione alterata del lavoro nelle aziende manufatturiere, una percezione che sovrasta la realtà dei fatti».
Professor Marini, come si supera questo strabismo che privilegia il lavoro intellettuale?
Innanzitutto, aprendo le imprese alle scuole e alle famiglie del territorio, organizzando eventi e visite per far comprendere ai ragazzi come è fisicamente fatta un’azienda, cosa richiede oggi il lavoro e quali ne sono oggi le condizioni. Mi capita di accompagnare degli studenti: se prima associavano la parola “operaio” a termini come “ripetitivo e alienato”, escono dalle visite con un’idea molto diversa. È poi importante che cambi la narrazione stessa delle aziende, magari attraverso lo sviluppo di progetti che le innestino nel territorio, come ad esempio collaborazioni con il mondo del volontariato.
Cosa si può fare, invece, per trattenere i giovani lavoratori?
La pandemia ha reso chiaro ed evidente un cambiamento della cultura del lavoro già iniziato in passato. Come è emerso dalle ultime ricerche, i giovani attribuiscono un peso diverso al valore del lavoro: per le nuove generazioni conta molto un maggior equilibrio tra la vita personale e quella professionale, così come avere del tempo per dedicarsi ad attività che facciano crescere dal punto di vista culturale. La risposta italiana al fenomeno americano della Great Resignation (grandi dimissioni, NdR) non è tanto l’abbandono del posto di lavoro, ma la ricerca di collocazioni professionali più in linea con le proprie aspettative.
Che risposta possono dare gli imprenditori?

Il cambiamento culturale deve investire anche loro. Non è più sufficiente offrire un contratto e un reddito: sono elementi necessari, ma non più sufficienti. È importante far capire ai futuri lavori che dentro l’azienda ci sono percorsi di crescita professionale, che passano anche dalla formazione.
In un mondo del lavoro che sta quindi evolvendo, come cambia la formazione?
È evidente che ci deve essere una continua formazione di carattere tecnico-professionale perché le tecnologie variano molto rapidamente e necessitano un aggiornamento continuo, soprattutto in quelle imprese che si affidano al digitale e all’intelligenza artificiale. Ciò che tuttavia a mio avviso è fondamentale è lo sviluppo delle capacità relazioni, quelle soft skill che oggi devono essere considerate competenze di base. Oggi molte aziende operano per team: ecco perché è necessario imparare a lavorare insieme e a sviluppare competenze trasversali. Senza dimenticare la questione intergenerazionale.
Cosa intende?

Capita che i giovani appena assunti si sentano marginalizzati o giudicati dai lavoratori più anziani, depositari di un sapere dell’azienda che non vogliono trasmettere alle nuove leve. Quindi è importante che i lavoratori storici insegnino ai neoentrati, ma anche che si sviluppi il “reverse mentoring”, ovvero permettere ai giovani di aiutare i più anziani grazie alla loro predisposizione per il digitale. Le nuove generazioni segnalano che va cambiato l’approccio culturale nel fare impresa: valori e obiettivi devono essere chiari, la mission dell’azienda va resa esplicita e comunicata in modo che le persone si sentano coinvolte. Per farlo, la formazione è fondamentale.
Una formazione lavorativa che può iniziare sin dai banchi di scuola: prof. Marini, cosa pensa della riforma degli ITS, gli Istituti Tecnici Superiori?
A mio avviso sono una leva importantissima per avvicinare il mondo delle imprese alla scuola. Tutte le esperienze di formazione duale all’interno degli enti formazione professionale – sulla scorta del modello tedesco – hanno dimostrato come da un lato sia possibile apprendere lavorando e dall’altro come la separazione tra il momento dello studio e quello del lavoro debba essere sempre più labile.
Secondo lei andranno aperti anche alle persone over 30?

Decisamente. È in corso un processo di invecchiamento non solo della popolazione, ma anche dello stesso mercato del lavoro con persone occupate di età sempre più avanzata che avranno bisogno di accedere a percorsi di formazione. Allo stesso tempo gli stessi enti di formazione professionale che oggi si rivolgono ai giovani dovranno riorientarsi per garantire l’occupabilità dei lavoratori lungo tutto il corso della loro vita. Caterina Chiara Carpanè