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Materie prime: supply chain corte e risorse interne. Le aziende alle prese con la globalizzazione interrotta

Materie prime: supply chain corte e risorse interne. Le aziende alle prese con la globalizzazione interrotta

DAI ROTTAMI DI FERRO AI CAMPI INCOLTI, L’ITALIA SCOMMETTE SULL’AUTARCHIA
Si legge su La Repubblica che «le aziende, di fronte alla penuria di materie prime fino ad ora garantite da Russia e Ucraina, si stanno organizzando». Le tre parole che accompagnano l’economia di oggi sono «autoproduzione, autonomia e deglobalizzazione. Quindi, piantare il mais nei campi a riposo e ricavare i fertilizzanti da liquame e letame anziché comprarli dalla Russia. Estrarre più argilla per le ceramiche dalle miniere sarde, perché dall’Ucraina non ne arriva più. Riprendere rapidamente a estrarre metano dai giacimenti italiani e produrre ghisa a Taranto, perché la guerra ha chiuso i rubinetti del Mar Neo. Infine, riciclare tutto quello che si può e accelerare la realizzazione di impianti rinnovabili per diventare più autonomi in campo energetico. E un piano che prevede la copertura da rinnovabili al 72% entro il 2030 per l’energia elettrica c’è già e si sviluppa anche all’interno del Pnrr». E le materie prime che non si trovano in Italia? Per la transizione green servono litio e terre rare, cobalto, nickel, rame e platino. Che non si producono solo in Russia, ma anche in Argentina, Bolivia, Australia e Africa. Ma in questo Paese «la Cina ha già contratti per i due terzi della raffinazione».

PANE, MAIS, CONCIME: ABBIAMO UN PROBLEMA

Mais

Lo scrive il Corriere della Sera: «Se l’Ucraina è il granaio d’Europa, la Russia lo è del mondo. Per l’Italia, le principali importazioni dai due Paesi sono grano tenero, mais, semi oleosi e fertilizzanti». L’Italia importa da Russia e Ucraina solo il 5% del totale di grano tenero, ma il suo prezzo ha fatto +33% in un mese. La mancanza di mais, invece, potrebbe prolungarsi per tutto il 2023: per l’Italia, l’Ucraina ne è il secondo fornitore. Il terzo mercato andato in tilt è quello dei fertilizzanti: la Russia produce il 15% dell’intera produzione mondiale. Aprire a nuovi mercati è inevitabili ma non facile. Su Stati Uniti, Argentina e Canada ci sono alcune criticità: i tempi lunghi e i costi del trasporto navale atlantico; il grano trattato con glifosate, erbicida classificato come “probabile cancerogeno” e che la Ue ha autorizzato con molte prescrizioni. Per quel che riguarda il mais, gran parte della produzione Usa è Ogm. Le associazioni agroalimentari hanno proposto al governo di «aumentare la produzione di grano tenero, mais e semi oleosi rimuovendo i limiti alla coltivazione dei terreni italiani derivanti dalla Politica agricola comune: circa un milione di ettari». Sulla pasta rischi non ce ne sono: la percentuale prodotta in Italia è del 60%.

GLOBALIZZAZIONE? IMPORT E FILIERE, IL RESTYLING DELL’INDUSTRIA
Ne scrive il Corriere della Sera: «I riflessi dell’invasione russa in Ucraina sulla

Supply Chain

globalizzazione saranno molto più larghi e strutturali di quanto abbia causato il Covid anche nelle sue fasi più acute di blocco della mobilità». Nello scenario globale attuale come cambia il posizionamento dell’industria italiana? «La nuova e ipotetica cassetta degli attrezzi delle aziende comprende l’accorciamento delle catene globali del valore, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento a monte, l’integrazione verticale del ciclo produttivo e la rivisitazione delle politiche delle scorte. Ma tutti gli aggiustamenti che apporteremo al funzionamento delle catene globali di oggi faranno aumentare i costi dei processi produttivi sul lato dell’offerta, e dovremo scontare una riduzione dei mercati di sbocco sul versante della domanda». Ma molto dipende da chi comanda nelle filiere: una cosa è il settore dei macchinari, il cuore della meccanica italiana, in cui il recupero della produzione di componenti che prima era stata delocalizzata è alla portata delle nostre imprese, altro è l’automotive in cui sono i tedeschi a primeggiare e per di più in una filiera impegnata nella difficile transizione all’elettrico».

RITORNO ALLA STAGFLAZIONE: RISCHIAMO LO CHOC IN STILE ANNI SETTANTA?

Stagflazione

Se lo chiede il Corriere della Sera: «Avremo caro prezzi e crescita asfittica come 50 anni fa? Oggi, la cultura della transizione ecologia può aiutare ad affrontare la crisi in modo diverso: evitando eccessive diseguaglianze e indicizzazioni salariali che mandano fuori mercato le aziende. A scapito del futuro». Insomma, se vi è una deriva non negativa della guerra in Ucraina questa sta nella maggiore consapevolezza «che minori consumi e più attenzione alle rinnovabili siano scelte non rinviabili né disgiunte». Però, non si può avere nello stesso tempo l’indipendenza energetica, i prezzi bassi dei combustibili e la transizione alle rinnovabili: bisogna scegliere. Inoltre, «nel giro di pochi anni ci siamo trovati di fronte a due crisi, la pandemia e la guerra, e la politica monetaria è stretta in un conflitto di interesse: da una parte la necessità di frenare l’inflazione e dall’altra quella di non svalutare gli asset che ha in bilancio». Quindi, un ritorno agli anni Settanta? Lo choc di questi giorni è solo simile a quello di allora perché, oggi, ci sono troppe bolle gonfiate dalla speculazione e incoraggiate dalla guerra.