Aziende a caccia di professionisti: focus Its, la formazione tecnica è la risposta? La nostra inchiesta

L'analisi di Emmanuele Massagli (Adapt) a fronte di un alto livello di mismatch occupazionale. Gli Its? Fondamentali ma anche le aziende ci devono credere. L'apprendistato? C'è da anni, ma in quanti lo conoscono davvero?

I dati aiutano a capire ma spesso preoccupano: da una ricerca Randstad Research, realizzata su un campione di circa mille imprese italiane, risulta che per il 57,8% degli imprenditori il fattore principale nel mismatch di competenze con i propri collaboratori sta nella sotto qualificazione tecnico-scientifica. In sintesi, manca la preparazione adeguata che chiedono mercati e aziende. Il rimpallo di responsabilità su questo disallineamento, tra i requisiti richiesti dalle imprese e le competenze offerte dai lavoratori, passa da anni dall’impresa alla scuola, ma di mezzo c’è il “Fattore C”.

Emanuele massagli

Che non rimanda ad una questione di fortuna ma ad una debolezza culturale: «Se non c’è formazione, o se ne abbiamo poca, è perché pochi giovani sanno dell’esistenza di alcuni mestieri e della possibilità di prepararsi per svolgerli in modo adeguato», commenta Emmanuele Massagli, presidente di Adapt (Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali) e di Aiwa (Associazione italiana welfare aziendale).

Professore, negli ultimi 15 anni in Italia è aumentato il tasso di disoccupazione, ma anche il numero dei posti vacanti: un paradosso, non crede?
Aumenta il tasso di disoccupazione, aumentano i posti vacanti ma diminuiscono i giovani: è tutto un paradosso. Perché se ci sono meno giovani rispetto a prima, quelli che restano dovrebbero trovare più facilmente un’occupazione. Eppure, se questo non accade vuol dire che da un lato i giovani sono poco interessati a svolgere alcuni lavori, mentre dall’altro significa che le imprese non sono entrate nei processi formativi. Il mismatch si può affrontare solo se si anticipa questa collaborazione tra mondo del lavoro e formazione.

L’Italia sconta tutt’oggi una mancata comunicazione tra le parti?
E’ così. All’Italia servono momenti di informazione sulle vacancies (i posti vacanti) da organizzare con le scuole nei microcontesti territoriali. E le figure tecnico-scientifiche non ci sono perché nel momento della scelta, ai nostri giovani, nessuno dice che mancano quelle professioni. E manca anche chi le deve formare perché le vacancies sono figure intermedie tra gli istituti superiori e le università.

Il premier Mario Draghi, nel suo discorso programmatico alle Camere, ha posto al centro il ruolo degli Istituti Tecnici Superiori: potrebbero essere una valida soluzione al problema?
Gli Its potrebbero colmare il vuoto di quelle figure che sono il professionista operativo o il collaboratore specializzato. Queste mancano a livello produttivo non solo nelle micro, piccole e medie imprese del manifatturiero ma anche in quelle grandi. Ad un salone dell’orientamento ci sono le università, ma quanti Its? C’è un grande problema di qualità della formazione della scuola e c’è un grande problema di comunicazione da parte degli Its e delle istituzioni.

In Italia ci sono 104 Its con più di diecimila giovani iscritti e l’80% dei diplomati trova occupazione: un dato incoraggiante…
Il dato è più alto se pensiamo agli Its che si concentrano sul manifatturiero. Ma i ragazzi potrebbero essere ancora di più se gli imprenditori entrassero direttamente in questi Istituti. Il mondo del lavoro deve essere inchiodato sugli Its – un percorso applicato di due anni che si colloca tra il diploma e la laurea - per pretendere di partecipare all’offerta formativa delle lezioni. I corsi devono essere proposti con la collaborazione delle aziende, perché i ragazzi diplomati negli Its sono quelle persone che poi verranno formate nelle imprese e le renderanno più competitive. E’ per questo che da tempo sostengo che gli Its non dovrebbero dipendere dal Ministero dell’istruzione ma dal Ministero del lavoro o da quello dello Sviluppo economico.

Ad oggi, la pandemia ha bruciato 444mila posti di lavoro, soprattutto tra donne e giovani. Ma c’è anche un aumento dei Neet, i ragazzi che non studiano, non lavorano e non si formano: cosa rischiamo?
I giovani che perdono il posto di lavoro entrano nell’inattività. E i tre quarti di chi oggi non ha più un’occupazione è composto da giovani. E’ uno dei tanti problemi causati dal Covid-19. Le armi per combattere questa battaglia sono quelle su cui dobbiamo scommettere tutti: riportare in aula chi non ha un titolo di studio; aggiornare le competenze di chi un diploma ce l’ha.

Insistendo su aggiornamento continuo e apprendistato?
Partiamo dall’aggiornamento professionale continuo, che ha una dimensione molto concreta: garantendo alla persona di aggiornare le proprie competenze, la si tutela. Ci fosse una crisi, il lavoratore sarebbe già spendibile sul mercato del lavoro. Ma l’aggiornamento deve essere “alla moda”, un po’ come quando si andava in discoteca negli anni Ottanta.

Prego…?
In quegli anni per conquistare una ragazza ci si vestiva in un certo modo: dovevi essere trendy secondo il gusto dell’epoca, altrimenti non combinavi nulla. L’aggiornamento continuo funziona nello stesso modo: “cucchi” il lavoro se sei in linea con quello che chiede il mercato in quel momento. Se segui le “tendenze”, cioè se ti “vesti” con le competenze e le qualifiche che sono necessarie.

Tra i motori della ripresa c’è anche l’apprendistato…
Il contratto di apprendistato di primo livello, che porta a conseguire la qualifica o il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore o il certificato di specializzazione tecnica superiore, esiste dal 2003. In Lombardia è operativo dal 2010, mentre in Italia dal 2015. Al 90% funziona solo dal 2016: le esperienze fatte fino ad ora sono però valide. A Varese, che è una delle roccaforti della piccola imprenditoria, la maggior parte degli Istituti professionali dovrebbe essere sensibile all’apprendistato duale, ma sono certo che i docenti sappiano solo vagamente di cosa si tratti. Le stesse imprese non sanno cosa sia. Insomma, l’apprendistato duale è una bellissima opportunità sconosciuta a tutti. Eppure, è proprio l’artigianato che conosce a fondo il “lavoro minorile”, nel senso positivo del termine. L’apprendistato professionalizzante, quello che si fa dopo la scuola, aiuta il ragazzo a crescere in competenze ed educazione. E’ un vero valore.

Lei propone un tandem di strumenti: quale?
L’apprendistato duale e l’Its: a congiungere le due realtà è il ruolo da protagonista dell’imprenditore. Perché non è solo la scuola a dover formare quelle figure che entreranno poi in azienda.