Cinque innovazioni senza ritorno: in azienda faranno la differenza

Il direttore dell’Osservatorio sull’Innovazione digitale nelle Pmi del Politecnico, Claudio Rorato: «Le Pmi, che occupano più del 30% della manodopera privata e sviluppano oltre il 40% del fatturato nazionale, dovranno elaborare una nuova visione, più digital oriented, per elevare la loro competitività»

Innovazioni per le imprese

Quali sono le cinque innovazioni più importanti da introdurre nel 2022 in un’azienda? Lo abbiamo chiesto a Claudio Rorato direttore dell’Osservatorio sull’innovazione digitale nelle Pmi del Politecnico di Milano. Prima della “classifica”, però, una premessa: «La pandemia – spiega Rorato - ha accelerato la consapevolezza delle organizzazioni private, pubbliche e dei cittadini sull’utilità del digitale. Inoltre, dal Pnrr arriveranno incentivi e investimenti per il sistema impresa, sostenendo la transizione 4.0, l’internazionalizzazione e le politiche industriali di filiera. In questo contesto, le Pmi, che occupano più del 30% della manodopera privata e sviluppano oltre il 40% del fatturato nazionale, dovranno elaborare una nuova visione, più digital oriented, per elevare la loro competitività».

Venendo invece alla “hit parade” delle innovazioni da introdurre in azienda nel 2022, al netto delle peculiarità di filiera e della eterogeneità esistente a livello di sistema Pmi, secondo il direttore dell’Osservatorio sull’innovazione digitale nelle Pmi del Politecnico di Milano, sono cinque le necessità tecnologiche che accomunano trasversalmente il mondo delle Pmi.

  1. Innanzitutto, il cloud, un’eredità della pandemia, che aiuta a sviluppare un’economia più collaborativa all’interno delle singole strutture organizzative e nella relazione con gli ecosistemi di riferimento (filiere, supply chain). A tale proposito, la connettività diventa strategica per garantire bassi livelli di latenza (intervallo di tempo tra l’input e l’output prodotto, ndr), necessari sia nel cloud sia nell’industria 4.0, in cui il dialogo machine-to-machine è fondamentale.
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  2. Poi la cyber security, che richiede non solamente un investimento ma, soprattutto, un salto culturale. La sicurezza deve essere sempre più percepita come una leva gestionale, non confinata solamente alle componenti tecniche (difesa dalle intrusioni) e giuridiche (compliance normativa).  Ciò comporta lo spostamento del focus da una percezione concentrata sulla propria azienda a una che pone al centro l’ecosistema di riferimento. Ciascuno, in buona sostanza, si fa garante della sicurezza anche per i soggetti con cui entra in relazione, predisponendosi mentalmente anche a investimenti per migliorare le relazioni di filiera o all’interno della propria supply chain.
     
  3. La dematerializzazione documentale, nonostante i balzi in avanti fatti con la fattura elettronica e la firma digitale, si è dimostrata ancora un’area di interesse e di arretratezza, proprio durante l’emergenza sanitaria, quando gli uffici operativi si sono distribuiti dalle sedi delle aziende alle residenze dei dipendenti. Un archivio digitalizzato, consultabile a distanza e senza vincoli temporali, consente continuità di servizio e relazione con i diversi stakeholder, ma anche l’attuazione di nuove modalità lavorative (smart working).
     
  4. Se l’adozione di soluzioni di data analytics sono incoraggianti, tuttavia le analisi sono prevalentemente di tipo descrittivo e non integrate con fonti esterne. Poco più del 10% delle Pmi è impegnata in progetti di big data, che potrebbero supportare efficacemente i processi decisionali e di pianificazione più complessi.
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  5. Infine, le restrizioni agli spostamenti e alle attività commerciali hanno spinto le Pmi, in ritardo rispetto alle grandi imprese, verso l'eCommerce. Rispetto al periodo pre-Covid, è aumentato del 50% il numero delle Pmi che lo utilizzano, portando con sé anche un incremento nell’impiego di altri strumenti lungo il ciclo di vendita (configurazioni/prenotazioni tramite il sito web, software di sales force automation). L’eCommerce diventa lo strumento che può rendere più ampi i mercati anche per le realtà meno strutturate ma che dispongono di prodotti validi nel contesto competitivo.

In conclusione, «ritengo opportuno ricordare che denaro e tecnologia, se non accompagnati da una cultura digitale adeguata, rischiano di disperdere energie lungo il tragitto. Troppo spesso la formazione coinvolge solamente il personale operativo e non chi, per ruolo, si dedica alle attività di indirizzo. Formarsi sul digitale non necessariamente significa adeguare le proprie capacità di utilizzo ma, prima di tutto, quelle di comprensione degli impatti dell’investimento sull’efficienza interna, sulla capacità di relazione e sulla possibilità di sviluppare nuove soluzioni di prodotto e di servizio».