Quando il territorio diventa vantaggio competitivo per l'impresa

Infrastrutture, capitale umano e capacità di fare rete: Andrea Venegoni analizza i fattori che rendono attrattivo un territorio e permettono alle Pmi di competere senza crescere

Imprese e territorio filiere corte

In un contesto economico segnato da tensioni geopolitiche e riconfigurazioni produttive, il territorio torna al centro delle strategie di sviluppo. Non come semplice cornice, ma come protagonista attivo nella costruzione di filiere resilienti, competitive e radicate, dove il legame tra impresa e territorio si esprime attraverso la qualità delle competenze, la forza delle reti locali e la capacità di fare sistema.

Andrea Venegoni, professore associato di Economia Politica presso LIUC – Università Cattaneo e direttore della divisione Ricerca & Advisory di LIUC Business School, in questo articolo analizza il rapporto tra impresa e territorio, con particolare attenzione al radicamento culturale ed economico delle filiere, all’attrattività territoriale e alle politiche formative. Il suo approccio coniuga analisi empirica e visione strategica, offrendo spunti concreti per affrontare le sfide delle piccole e medie imprese italiane.

Tra i contributi più recenti, Venegoni ha curato la ricerca “Firm drain – firm gain: favorire la localizzazione di imprese sul territorio”, promossa da LIUC Business School. Lo studio elabora un set di indicatori per misurare la capacità dei comuni lombardi di attrarre iniziative imprenditoriali, evidenziando come fattori quali capitale umano, infrastrutture e vocazione produttiva siano determinanti per il successo delle imprese

PERCHÉ LE FILIERE NASCONO IN CERTI TERRITORI

In un’economia globale sempre più instabile, il territorio è tornato al centro di nuove strategie produttive, sempre più orientate alla prossimità e alla resilienza. Oggi il “dove” produrre conta quanto “cosa” e “come” si produce.

Il professor Andrea Venegoni sottolinea come le recenti crisi logistiche abbiano messo in discussione la sostenibilità delle catene di fornitura lunghe e frammentate. “Stiamo vivendo una fase di riconfigurazione degli equilibri politici ed economici mondiali. La globalizzazione non è scomparsa, ma sta cambiando forma – spiega – Le imprese stanno riportando la produzione verso aree più vicine e controllabili, per ridurre l’incertezza e i costi legati alle catene di approvvigionamento”.

Il radicamento territoriale si configura come una leva competitiva per affrontare l’incertezza. Non solo per la tenuta delle filiere ma anche per la loro capacità di evolvere. “Chi ha mantenuto una rete locale di fornitori, manodopera specializzata e infrastrutture adeguate oggi si ritrova in una posizione di vantaggio competitivo. I modelli produttivi radicati e integrati nel contesto locale – chiarisce Venegoni – possono contare su una maggiore capacità di adattamento, su tempi di risposta più rapidi e su un controllo diretto dei processi produttivi”. In questo senso, il territorio diventa un catalizzatore di competenze e processi chiave per la prosperità di una Pmi.

Non si parla solo di infrastrutture fisiche. Il concetto di “rete” include anche le connessioni digitali, i servizi logistici, la prossimità a centri di ricerca e formazione e la presenza di un tessuto imprenditoriale coeso. “Le infrastrutture tecnologiche sono tanto importanti quanto quelle materiali. Una buona connettività digitale rende un territorio più attrattivo per le imprese che desiderano innovare”. Venegoni evidenzia, inoltre, il ruolo delle istituzioni locali e delle politiche territoriali nel sostenere queste reti. “Non basta che le imprese siano radicate: serve un ecosistema che le supporti, che favorisca la collaborazione tra attori diversi e che investa nella qualità del contesto produttivo”.

Il radicamento, quindi, non è solo una condizione ereditata dal passato, ma una scelta strategica da coltivare nel presente. È ciò che permette alle imprese di essere resilienti e di costruire un vantaggio competitivo duraturo. Secondo Venegoni, il successo di una filiera non è mai casuale. “Le tradizioni produttive locali sono un valore percepito sia dalle imprese che dai consumatori. Il prodotto porta con sé una storia, una cultura, un’identità che arricchisce l’esperienza del consumatore”. Questo legame profondo tra territorio e prodotto si è rafforzato negli ultimi anni, complice la crescente attenzione all’esperienzialità, alla sostenibilità e all’autenticità. “Tale tendenza si è rafforzata con l’emergere di nuovi modelli di consumo, più attenti all’esperienza e ai valori. Il territorio, in questo senso, non è solo un luogo di produzione ma elemento identitario che arricchisce di significato il prodotto”. Non è solo funzionale, ma anche simbolico.

TRADIZIONE E INNOVAZIONE: I DISTRETTI CHE FANNO SCUOLA

Imprese e territorio filiere corte

Il radicamento territoriale non è sinonimo di immobilismo. Al contrario, i territori che hanno saputo valorizzare la propria tradizione produttiva investendo in innovazione sono oggi tra i più competitivi. Andrea Venegoni osserva che alcuni distretti italiani hanno dato vita a ecosistemi virtuosi, dove tradizione artigiana e tecnologia si incontrano e si rafforzano. “Esistono territori con una forte vocazione manifatturiera che hanno saputo valorizzare la propria tradizione storica, integrandola con infrastrutture tecnologiche avanzate e servizi di supporto all’innovazione. Parliamo di territori che hanno lavorato per creare le condizioni affinché le Pmi non solo sopravvivessero, ma si rafforzassero e potessero competere su scala globale”.

Esempi come il Kilometro Rosso o la Motor Valley dimostrano che la competitività nasce dalla capacità di fare sistema e di favorire l’integrazione tra imprese, centri di ricerca, università e istituzioni. “Sono distretti che hanno anticipato il cambiamento – prosegue – e oggi identificati come best practice a livello mondiale”.

Venegoni evidenzia come alcuni settori in difficoltà – come il tessile o la pelletteria – abbiano trovato nuova linfa proprio grazie alla valorizzazione del know-how locale. “Alcuni distretti, riscoprendo il proprio saper fare artigianale e investendo in tecnologie avanzate, sono riusciti ad attrarre investimenti da grandi gruppi del lusso internazionale e a rilanciare la propria competitività”. La tradizione dunque non basta, deve essere integrata con infrastrutture, innovazione e visione strategica per farsi motore di sviluppo. Solo così i territori tornano a competere su scala globale senza rinunciare alla propria identità.

CAPITALE UMANO E FORMAZIONE

Tra i fattori che determinano l’attrattività di un territorio, il capitale umano occupa una posizione di rilievo. Venegoni lo definisce “uno dei principali fattori critici di successo” per le imprese, sottolineando come la disponibilità di figure professionali qualificate sia oggi più importante della tecnologia stessa. “Le imprese sono affamate di competenze, non solo quelle legate all’innovazione, ma anche quelle artigianali, specialistiche, radicate nella tradizione produttiva”.

Il mismatch tra domanda e offerta di competenze è duplice: da un lato mancano profili tecnici aggiornati alle nuove tecnologie; dall’altro si assiste alla progressiva scomparsa di mestieri tradizionali, in cui la trasmissione del sapere e del saper fare è fondamentale, ma sempre più rara. Venegoni individua nella formazione tecnica e professionale una strada per invertire questa tendenza. “Gli ITS Academy e i percorsi di apprendistato sono strumenti oggi indispensabili, tuttavia serve rileggere in chiave moderna il concetto di bottega artigiana, dove giovani motivati possano imparare da chi possiede competenze di eccellenza”.

Un altro aspetto critico è l’apprendimento continuo. In un contesto in cui il ritmo dell’innovazione è sempre più rapido, la formazione non può limitarsi a fornire competenze tecniche statiche. “La vera competenza è il saper imparare. La flessibilità, la capacità di aggiornarsi, di adattarsi ai cambiamenti, è ciò che rende un lavoratore davvero competitivo”.

In sintesi, il capitale umano non è solo una risorsa da attrarre, ma un patrimonio da coltivare. E il territorio, con le sue vocazioni e le sue reti formative, può diventare il luogo ideale per farlo.

SUPERARE IL LIMITE DIMENSIONALE

Imprese e territorio filiere corte

Il tessuto imprenditoriale italiano è storicamente composto da piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, che hanno conquistato eccellenza e riconoscibilità nel mondo. Come evidenzia Venegoni, “nel contesto competitivo di oggi, se lasciate sole, queste imprese non saranno più in grado di competere”. Il limite dimensionale non può essere superato semplicemente chiedendo alle Pmi di crescere: significherebbe snaturarne l’identità e perdere quel valore distintivo legato alla flessibilità, alla specializzazione e alla qualità artigianale.

La soluzione è costruire reti. “Bisogna superare il limite dimensionale facendo crescere l’ecosistema attorno all’impresa”. Ciò implica il coinvolgimento di attori diversi: università, poli di ricerca, istituzioni politiche, associazioni di categoria, enti di formazione, perché solo con una cooperazione strutturata e interdisciplinare è possibile generare valore condiviso e sostenere l’innovazione. “In Italia persiste una certa difficoltà culturale nel fare sistema – prosegue – La frammentazione, la scarsa attitudine alla collaborazione tra soggetti di natura diversa, è una fragilità che va letta come sfida”. Fare rete, quindi, non è solo una strategia di sopravvivenza, ma una condizione necessaria per rilanciare la competitività delle Pmi senza rinunciare alla qualità che rende unico il modello produttivo italiano.

INDICATORI TERRITORIALI E IMPATTO DELLE RICERCHE

Per comprendere davvero cosa rende un territorio attrattivo per le imprese, servono strumenti di analisi capaci di cogliere le specificità locali e le dinamiche evolutive. Con la ricerca “Firm drain – firm gain: favorire la localizzazione di imprese sul territorio” è stata sviluppata una mappatura dettagliata dei fattori territoriali che influenzano la localizzazione delle attività produttive. “Questo lavoro ci permette di capire dove e perché le imprese scelgono di insediarsi”, precisa Venegoni.

Tra gli indicatori più rilevanti emersi dalla ricerca ci sono:

  • La disponibilità di capitale umano qualificato, inteso non solo come laureati, ma come figure professionali di alto valore riconosciuto dalle imprese.
  • La qualità delle infrastrutture, sia fisiche (strade, ferrovie, logistica) sia digitali (connettività, reti tecnologiche).
  • La presenza di un ecosistema dell’innovazione, con università, centri di ricerca e poli tecnologici capaci di generare sviluppo.
  • La demografia attiva, ovvero territori con una popolazione giovane, dinamica e orientata al futuro.
  • La vocazione produttiva consolidata, che favorisce la specializzazione e la continuità delle filiere.

Un altro aspetto interessante è il ruolo dell’università come facilitatore di dialogo. “Quando gli attori territoriali si incontrano in un contesto di ricerca, si spogliano dei ruoli e riescono a ragionare in modo più strategico. È lì che si creano convergenze operative, capaci di generare politiche più informate e azioni più efficaci”.

In sintesi, monitorare i territori con strumenti analitici avanzati non è solo utile: è indispensabile per costruire politiche di sviluppo coerenti con le vocazioni locali e per sostenere le imprese nel loro percorso di crescita.

IL TERRITORIO COME MOTORE DI SVILUPPO

Il territorio è un attore economico a tutti gli effetti, un sistema vivo fatto di relazioni, competenze, infrastrutture. In un’epoca segnata da instabilità globale e trasformazioni tecnologiche, il radicamento locale si rivela una leva strategica per la competitività delle imprese.

Come emerge chiaramente dall’analisi di Andrea Venegoni, il successo delle filiere produttive dipende dalla capacità di valorizzare il capitale umano, costruire reti solide, investire in formazione e fare sistema. I territori che riescono a coniugare tradizione e innovazione, che sanno leggere i propri punti di forza e trasformarli in vantaggi competitivi, diventano catalizzatori di sviluppo. E le Pmi, se sostenute da un ecosistema coeso e lungimirante, possono superare il limite dimensionale e affermarsi anche sui mercati globali. In questo senso, investire nel territorio significa investire nel futuro dell’impresa. Paola Mattavelli

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