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Salari fermi da 30 anni: cosa blocca davvero la crescita e come sbloccarla

Salari fermi da 30 anni: cosa blocca davvero la crescita e come sbloccarla
Salari stagnanti Item

Parlare di salari significa toccare un tema che attraversa la vita di ogni lavoratore, impatta sulle scelte delle imprese e determina equilibri sociali. È quanto emerso dalla diretta del ciclo “Item d’impresa” trasmessa sui canali Facebook, Youtube e LinkedIn di Confartigianato Imprese e Territorio, che ha visto il confronto tra l’economista Andrea Garnero, esperto di contrattazione collettiva e lavoro presso l’Ocse, e Antonio Belloni, coordinatore del Centro Studi Imprese e Territorio di Artser. Due voci autorevoli e complementari moderate da Sara Bartolini, Responsabile comunicazione corporate e relazioni esterne di Imprese e Territorio, che hanno provato ad affrontare il tema salariale con approccio analitico, andando oltre gli slogan. Le domande sul tavolo non erano banali: i salari sono davvero troppo bassi o è il carico fiscale a ridurre il netto in busta? Le imprese possono fare di più o sono bloccate da vincoli esterni? E ancora, serve una spinta dallo Stato o un cambio di rotta delle parti sociali?

UNA STAGNAZIONE CHE DURA DA TRENT'ANNI

Garnero ha chiarito fin da subito che la stagnazione salariale non è un destino ineluttabile. Secondo l’economista, l’Italia sconta un blocco dei redditi da lavoro che affonda le radici nei primi anni Novanta, periodo in cui è iniziata una trasformazione strutturale dell’economia, con un aumento del part time e delle forme di lavoro discontinue. Le cause non si riducono a un unico fattore: «Ci sono elementi che riguardano la produttività, la formazione, la contrattazione collettiva, le politiche fiscali e il rispetto delle regole», ha sottolineato.

Tutti aspetti che, se analizzati singolarmente, possono indicare strade di miglioramento. Ma proprio la pluralità delle cause rende vano il ricorso a soluzioni semplicistiche o interventi spot. Per questo, ha insistito l’economista, è necessario scomporre il problema in tutte le sue componenti per costruire una risposta coerente e di lungo periodo.

IL NODO FISCALE E IL LAVORO SOMMERSO

Dal suo osservatorio sulle imprese, Belloni ha portato esempi concreti che mostrano le contraddizioni del sistema attuale. In particolare, ha raccontato il caso di un’azienda “buona” – cioè profittevole, innovativa e orientata alla crescita – in cui tuttavia quasi tutti i dipendenti percepiscono circa il 20% dello stipendio in nero. Una situazione non isolata, che riflette pratiche diffuse, spesso accettate anche dai lavoratori.

Le imprese che vorrebbero regolarizzare tutto si scontrano con barriere burocratiche, vincoli fiscali e rigidità che rendono complicato il cambiamento. «Portare in regola i dipendenti comporta costi elevatissimi, non solo fiscali ma anche in termini di gestione interna», ha detto Belloni. E ha aggiunto: «In province come quella di Varese, la concorrenza con la Svizzera spinge molti neolaureati e tecnici qualificati a emigrare, aggravando il fenomeno della fuga dei talenti».

LA CRISI DELLA PRODUTTIVITA'

La paralisi salariale è strettamente legata anche alla produttività stagnante. Garnero ha ricordato come fino agli anni Novanta l’Italia viaggiasse a ritmi di crescita simili a Francia e Germania. Poi, un arresto netto. Alla base, secondo lo studioso, ci sarebbe la mancata risposta all’innovazione tecnologica e all’informatizzazione. «Non si è trattato solo di comprare computer, ma di cambiare il modo di lavorare, di riorganizzare l’attività produttiva e formare le persone», ha spiegato.

Invece, si è scelta una strada più immediata ma miope: comprimere i salari come variabile di aggiustamento. Questo ha generato un circolo vizioso, in cui la scarsa valorizzazione delle competenze ha disincentivato gli investimenti in formazione e innovazione, abbassando ulteriormente la produttività.

IL DIBATTITO SUL SALARIO MINIMO

Uno dei punti centrali è stata la discussione sul salario minimo, tema che divide anche le parti sociali. Garnero ha spiegato che in tre quarti dei Paesi Ocse esiste una forma di salario minimo legale. Gli stati che ne sono privi, come i nordici o l’Austria, vantano però una contrattazione collettiva molto forte e diffusa. In Italia, invece, ci sono ambiti in cui la contrattazione non riesce più a garantire retribuzioni dignitose.

La proposta dell’economista non è di fissare un importo minimo a caso, ma di «partire da un metodo, magari cominciando da quei settori dove l’urgenza è più evidente e dove il contratto collettivo è meno efficace». In questo modo, si potrebbero anche contrastare le forme di concorrenza sleale tra imprese, che colpiscono proprio quelle più corrette.

UN NUOVO EQUILIBRIO TRA LAVORO E IMPRESA

Belloni ha insistito sulla necessità di considerare il lavoro non solo come un costo ma come un investimento. Le aziende che lo fanno – ha detto – riescono a fidelizzare i dipendenti, ridurre il turnover e costruire un’identità aziendale forte. Inoltre, ha segnalato la difficoltà di tradurre davvero la digitalizzazione in vantaggi competitivi: «Molte Pmi usano le tecnologie solo in minima parte, per mancanza di competenze interne». Questo impedisce di aumentare la produttività e ripagare adeguatamente l’investimento formativo.

Anche il tema dell’abitare ha un impatto sulla competitività: nelle grandi città, affitti e mutui sono ormai insostenibili per molti lavoratori, inclusi insegnanti, infermieri e forze dell’ordine. Alcune imprese cominciano a offrire soluzioni abitative tra i benefit aziendali, come accade in Lussemburgo o in alcune aree dell’Italia industriale.

OLTRE GLI INCENTIVI

L’economista dell’Ocse ha invitato a un cambio di prospettiva anche nelle politiche pubbliche. Secondo lui, occorre rimuovere i disincentivi alla crescita, spesso nascosti tra le pieghe normative, e rendere più semplice e utile per le imprese diventare grandi. Al tempo stesso, ha lanciato un monito sul rapporto tra imposizione fiscale e servizi pubblici: «Paghiamo molto ma riceviamo poco, siamo in un equilibrio inefficiente».

Il problema si riflette anche nella concentrazione delle entrate fiscali: tre quarti delle entrate IRPEF arrivano da un quarto dei contribuenti, con un senso di iniquità diffuso. E infine, ha sottolineato come la narrazione del lavoro debba cambiare, smettendo di idealizzare solo settori stagionali e valorizzando anche la manifattura e l’industria, che in molti territori sono ancora la spina dorsale economica.

WELFARE AZIENDALE E MERITOCRAZIA

Nell’ultima parte della diretta, Belloni ha toccato il tema del welfare e delle leve aziendali per attrarre e trattenere i talenti. Strumenti come asili nido, assistenza sanitaria e supporto abitativo sono utili, ma non possono sostituire politiche retributive adeguate. «Le aziende virtuose usano il welfare come integrazione, non come scappatoia per evitare aumenti salariali», ha chiarito. Inoltre, ha evidenziato il valore della “discriminazione positiva”: premiare i più meritevoli all’interno delle organizzazioni. Una pratica difficile da applicare in contesti sindacalizzati o con margini ridotti, ma fondamentale per incentivare l’eccellenza. Il nodo resta sempre lo stesso: considerare il lavoro come una risorsa strategica, non un elemento su cui risparmiare.

È quindi emersa una consapevolezza trasversale: non esiste una singola causa né una soluzione miracolosa. Ma esistono percorsi di consapevolezza e cambiamento. Il problema salariale è sistemico, radicato in una pluralità di fattori che coinvolgono imprese, lavoratori, istituzioni e cultura del lavoro. Ma ci sono margini di azione, e le esperienze positive non mancano. Le imprese che crescono sono quelle che sanno innovare, che sanno valorizzare il capitale umano e che puntano su qualità e formazione. È da queste realtà che può partire un nuovo paradigma, in cui il lavoro non sia più un semplice costo da contenere, ma una leva strategica per costruire futuro e benessere condiviso. Elisa Marasca

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