L’”inverno demografico” non è una questione di clima: se le nascite sono sempre meno, minore sarà la crescita economica. Così si incrina la sostenibilità dei sistemi pensionistici, dei servizi sanitari e del welfare. The Economist, il settimanale inglese, non conforta quando dice che il problema della denatalità interessa anche Cina e India. E interesserà, forse, anche l’Africa subsahariana.
«A dire il vero – interviene Francesca Luppi, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano – il fenomeno è molto sentito anche nei Paesi del Nord Europa: tra i giovani svedesi, per esempio, dal 2008 la fecondità sta calando anno dopo anno. Perché? Il grado di incertezza sul futuro (conflitti bellici, crisi ambientali, pandemia) è sempre più elevata. E i giovani avvertono questa rottura con la tranquillità del passato: oggi, nessuno sa dove sta andando il mondo. E i Governi non stanno facendo niente di particolarmente drastico per ostacolare quello che avverrà nei prossimi anni».
PUNTARE SUL WELFARE AZIENDALE E SUI CONSORZI TRA IMPRESE
«L’Italia è il Paese più generoso per quanto riguarda il congedo di maternità: 5 mesi pagati all’80% con la possibilità, da parte delle aziende, di portarlo al 100%. I padri possono beneficiare di due settimane – dice la professoressa - Per un imprenditore, però, assumere una donna è più svantaggioso rispetto a un uomo perché bisogna trovare un sostituto per i cinque mesi di maternità obbligatoria e per i mesi successivi di congedo parentale, che le mamme possono aggiungere se non ci sono posti al nido. Inoltre, difficilmente i padri restano a casa perché il congedo parentale è retribuito al 30% dello stipendio. In Spagna e Germania, invece, l’equa divisione dei congedi offre gli stessi vantaggi a uomo e donna».
E qui entra in gioco il «welfare aziendale, che permette di trovare soluzioni flessibili ai genitori e garantisce loro di conciliare le esigenze di cura con quelle lavorative: penso agli asili nido aziendali, allo smart working inteso come flessibilità di tempi e luoghi, ai consorzi di piccole imprese che, sui territori, possono garantire questi servizi».
IL WELFARE NELLA MANOVRA DI BILANCIO 2024
E proprio al welfare guarda la Manovra di Bilancio 2024: la quota dei fringe benefit sarà di duemila euro per chi ha figli a carico e di mille euro per tutti gli altri. Inoltre, sarà possibile utilizzare i fringe di welfare aziendale anche per pagare le utenze di acqua, luce e gas e per il pagamento dell'affitto o del mutuo sulla prima casa. I vantaggi fiscali: per le aziende, sono deducibili al 100% e permettono di ridurre il carico fiscale complessivo. Per i dipendenti, i fringe benefit saranno esenti da tassazione fino al limite di duemila euro per dipendente con figli a carico e fino a mille euro per dipendente senza figli a carico.
L’EFFETTO DOMINO CHE SFILACCIA LE RETI FAMILIARI
Però, l’effetto domino dell’”inverno demografico” si fa sentire: di fronte a un Sud Italia che si sta svuotando, e sta invecchiando molto più rapidamente delle regioni del Nord, si deve agire con urgenza. Anche per affrontare lo sfilacciamento delle reti familiari: «Le grandi città assicurano relazioni sociali ma poche possibilità di fare comunità, che invece resistono nelle zone periferiche. Inoltre, la rete sociale familiare che, fino ad oggi, ha garantito benessere in termini di Welfare informale (i parenti che curano figli e nipoti) si sta sgretolando. Le reti diventano fini e si allungano perché i figli si allontanano sempre di più dai genitori proprio per cercare lavoro».
L’IMMIGRAZIONE, CHE NON BASTA, SI STA ALLINENANDO AI TREND OCCIDENTALI
Il fenomeno è più complesso di quanto sembri: «Le generazioni più giovani, sempre più ridotte, creano dei vuoti
di disponibilità di forza lavoro sul mercato. A questo si aggiunge il mismatch tra scuola e lavoro: per gli imprenditori diventa sempre più difficile trovare ragazzi o ragazze che, da una parte, abbiano la preparazione giusta e dall’altra la voglia di occupare determinate posizioni. Giovani spesso insoddisfatti, perché in Italia un laureato su tre non ha un lavoro che rispecchi le proprie competenze».
E non pensiamo che i flussi migratori siano la soluzione a tutti i problemi. Ancora la professoressa: «L’immigrato accetta lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma se da un lato ci sono meno nascite e generazioni di italiani sempre più povere, dall’altro gli ingressi di immigrati nel nostro Paese sono più bassi rispetto a Francia e Germania. Se i Governi non sapranno agire su tasso di fecondità e flussi migratori, in futuro la situazione peggiorerà».
La ragione si abbina al pragmatismo: «L’immigrazione rimane una risorsa perché in Italia abbiamo già perso intere generazioni, si è ridotta soprattutto quella della fascia tra 0 e 25 anni, e quindi servono nuovi lavoratori. Ma quelli che provengono da Paesi dove la fecondità è notoriamente più alta rispetto alla nostra, e la sostenevano, ora si adeguano ai trend occidentali perché vivono le stesse difficoltà delle famiglie italiane: scarsità di servizi, mancanza di redditi adeguati, incertezze economiche».
L’ASSEGNO UNICO COME DOTE PER IL FUTURO DEI FIGLI. MA IN ITALIA NON È COSI’
A questo punto: su quali leve si deve agire per riassestare il sistema? Quali le mancanze? Cosa si deve fare? Nessuna ricetta, ma tante fonti di ispirazione. A partire dalle politiche sociali e familiari sulle quali insistono Francia, Germania, Svezia e Spagna. Francesca Luppi dice che in Italia, «nazione dove, a livello europeo, più alta è la percentuale di Neet (giovani che non lavorano e non studiano) e di working poor (lavoratori sottopagati e precari), mancano interventi strutturali importanti e duraturi per le famiglie. Tra le tante politiche una tantum (bonus mamma, bonus figli), l’unica eccezione è l’assegno unico. Ma se la Germania dà 200 euro al mese per ciascun figlio fino al compimento del ventunesimo anno di età, in Italia si va da un minimo di 54 euro ad un massimo di 189 per ogni figlio minorenne a carico. Per quelli compresi tra i 18 e i 21 anni, il minimo è di 27 euro e il massimo di poco più di 91».
Un chiarimento è necessario: «Gli assegni universali non sono pensati per aiutare le famiglie in condizioni economicamente svantaggiate, ma per incentivare le famiglie a fare figli. Uno strumento che dimostra la vicinanza dello Stato a voler contribuire nel tempo al benessere delle nuove generazioni. Una specie di dote che dovrebbe permettere alle famiglie di risparmiare un gruzzoletto da usare per i figli che escono dalle scuole ed entrano nel mercato del lavoro. In Italia, invece, lo si usa per pagare il “costo” di aver avuto dei figli».
IL MODELLO FRANCESE DOVE IL FIGLIO NON È UN COSTO
Dunque, lo Stato deve prendersi le sue responsabilità. Proprio come in Francia, dove «lo Stato è responsabile del benessere di ogni bambino e si fa carico dei suoi costi e delle sue cure offrendo a tutti, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, le stesse opportunità di realizzazione. Con circa 39 politiche per la famiglia, che ogni anno vengono rimodulate e riadattate alle esigenze delle famiglie, vengono garantiti trasferimenti monetari, detrazioni fiscali, servizi per l’infanzia diffusi, accessibili e a bassissimi costi, l’assistenza domestica per le mamme. In Francia si spende il 4% del Pil per i nuclei famigliari; in Italia solo il 2%».
Insomma, «bisogna spendere più soldi e, soprattutto, farlo con buon senso. Perché nel nostro Paese, oggi, quasi una donna su 4 – nata entro il 1980 – non avrà figli. Quindici anni fa era una su 10. Bisogna aiutare le famiglie ad accantonare l’incertezza del futuro grazie ad uno Stato che dice, con strumenti reali, che il “figlio non è un costo”».
ITALIA SEMPRE PIU’ POVERA
Costo che in Italia si traduce nella più bassa disponibilità, tra tutti i Paesi europei, di posti negli asili nido per bambini da 0 a 2 anni. Così, «se il figlio è un costo bisogna sostenerlo aumentando gli svantaggi: le madri restano a casa, non lavorano e così facendo rinunciano a un reddito in più in famiglia (generando impoverimento) e a una soddisfazione personale. Se lavorano, devono pagare la babysitter. Se i bambini vanno al nido, una famiglia con due figli spende il 30% del reddito famigliare in rette», ricorda Francesca Luppi.
Cosa manca in Italia? «Servizi per l’infanzia disponibili, accessibili, di qualità e a basso costo. Inoltre, manca una cultura aziendale e un sistema istituzionale che favoriscano la partecipazione delle madri al mercato del lavoro: nel nostro Paese il tasso dell’occupazione femminile si aggira sul 50%, il che significa che stiamo utilizzando metà della forza lavoro disponibile. In Svezia, l’occupazione delle donne è all’80%». Davide Ielmini