
Per usare una metafora sportiva, la Moda è in discesa libera. E lo è da tanto tempo. Il termometro della crisi si surriscalda, ma è difficile scovare una ragione che possa spiegare realmente ciò che sta accadendo: -6,6% nei primi otto mesi del 2025 (il manifatturiero in crisi si ferma ad un -1,4%), -1,9% su base annua, -3,4% di export (+2,6% della media della manifattura), -9,6% per quanto riguarda le attese sugli ordini.
UNA CRISI SENZA RISPOSTE?
Gli stessi imprenditori – tanti quelli contattati da Imprese e Territorio – si interrogano sul fatto che anche il lusso, anni addietro punta di diamante del settore, in questi ultimi due anni abbia fatto retromarcia sui consumi. La causa? L’incertezza che caratterizza l’attuale domanda mondiale influisce sull’offerta della moda specializzata.
Però c’è di più, e a dirlo sono ancora le imprese: la concorrenza di Cina, Turchia, Taiwan si estende a macchia di leopardo, le tante crisi finanziaria hanno colpito duramente i clienti di fascia bassa e media, la pandemia ha lasciato strascichi su consumatori e grandi marchi. «Questo è il peggior momento degli ultimi quarant’anni», sottolineano alcune imprese.

CAMBIANO I TEMPI
Non è una novità, ma questa volta la Moda sembra non uscire dal labirinto: cambiano i tempi, le generazioni e i gusti. I giovani sono sempre più attenti all’ambiente, dimostrano di saper scegliere e, di conseguenza, le imprese si trovano a dover diversificare sempre più l’offerta.
Ma ancora non ci siamo: dopo due anni di elevata inflazione, come si legge nel rapporto dell’Ufficio Studi di Confartigianato Imprese, i consumatori sono più sensibili ai prezzi e, di conseguenza, anche al risparmio. Poi, la transizione green induce una maggiore circolarità dei beni di consumo, la quota della moda sugli scambi globali si è ridotta, pesano i dazi americani (ma la qualità del Made in Italy si fa ancora più robusta), il dirottamento verso altri mercati di prodotti di moda cinese – precedentemente diretti negli Stati Uniti – incide sulle vendite delle nostre aziende. E qui c’è un’altra complicazione: è bassa la probabilità che i prodotti della moda Made in Italy possano sostituire quelli cinesi su mercato statunitense, che richiede prodotti più sostituibili provenienti da altri produttori asiatici, tra cui domina il Vietnam.
COSA ACCADE ALL’IMPORT?
Nei primi otto mesi del 2025 è aumentato del 3,4%: da un lato c’è la flessione del 2% dai Paesi Ue e, dall’altro, l’aumento dell’8,2% dai Paesi extra Ue. L’import dalla Cina, che rappresenta circa un terzo (34,3% delle importazioni extra Ue della Moda) cresce addirittura a doppia cifra: +11,8%.
OGNI GIORNO CHIUDONO UNDICI IMPRESE: ALTO IL PREZZO SOCIALE DELLA CRISI
Quando si parla del ruolo sociale dell’impresa, si intende proprio questo: un posto di lavoro non è solo un posto di lavoro. Genera un circolo virtuoso fatto di benessere, attenzione ai territori e alla comunità, consumi ed economia viva. Tutto questo si sta erodendo lentamente: nel secondo semestre 2025, 1.035 imprese del tessile, abbigliamento e pelli (834 sono artigiane) hanno chiuso per sempre. In sintesi, il settore ha visto la chiusura di 11 imprese al giorno, di cui 9 sono imprese artigiane.
LE RICADUTE DELLA MODA ITALIANA IN EUROPA
Eppure, la Moda italiana conta – e tanto – a livello europeo: con i suoi 461mila addetti, è il primo Paese in Ue davanti al Portogallo (168mila), alla Polonia (139 mila), alla Romania (133mila) e alla Germania (131 mila). L’occupazione in Italia è pari al 27% del totale del settore dell’Ue.
