«La questione salariale non riguarda solo i salari»: lo dice Andrea Garnero, economista Ocse e autore del libro “La questione salariale” (Egea). La stagnazione dei salari, infatti nasconde quella della produttività e della specializzazione dei collaboratori delle imprese: «Dobbiamo investire su servizi ad alto valore aggiunto, sulla crescita delle aziende e sulla formazione. Con coraggio e visione. Il mercato del lavoro è ormai spezzettato, ma non è detto che il lavoro in sé non possa più essere valorizzato».
Nel libro “La questione salariale”, scritto con Roberto Mania, lei sostiene che il problema dei salari è legato anche alla scelta, da parte delle imprese, di competere sui costi e non sulla qualità: ci spiega?
Il libro avrebbe potuto avere un titolo alternativo - “La questione salariale non è solo una questione di salari” – perché il tema è complesso: questo significa che, se da un lato, non bastano un decreto o una legge per risolverla, dall’altro tutti noi siamo chiamati ad essere responsabili. Dietro alla stagnazione dei salari e del reddito da lavoro in senso più ampio (ciò che una famiglia si porta a casa alla fine dell’anno), che dura ormai da trent’anni, ci sta la stagnazione della produttività italiana. Che si è interrotta a partire dalla metà degli anni Novanta. Le cause? La prima è la dimensione delle imprese: bisogna farle crescere e svilupparle. La seconda è la specializzazione produttiva: dagli anni Sessanta e Settanta, ad oggi, tutti i paesi Ocse hanno affrontato una fase di deindustrializzazione e, alcuni di questi, si sono specializzati nei servizi ad alto valore aggiunto. L’Italia e altri, invece, non solo si sono deindustrializzati, ma si sono concentrati anche su servizi a più basso valore aggiunto in cui il lavoro, per natura, è discontinuo (per esempio il turismo), o in cui i guadagni di produttività sono strutturalmente più limitati perché si tratta di servizi dove c’è meno spazio per tecnologia, innovazione e ricerca. Se vogliamo cambiare il trend bisogna puntare sulla crescita delle imprese e, di conseguenza, su quella dei salari.
Si compete sui costi e non si investe nella specializzazione delle competenze?
Nella competizione legata ai costi si troverà sempre qualche paese più competitivo: la Cina, il Nord Africa, i Balcani. Questa non è certo la via più sostenibile per garantire l’occupazione nel medio e lungo periodo. In questi ultimi anni, di fronte alle tante crisi che si sono succedute, abbiamo provato a salvare tutto e non si è fatta nessuna scelta specifica. E questo vale tanto per i servizi quanto per il settore manifatturiero, dove ci sono alcune produzioni a più basso valore aggiunto e altre, invece, ad alto valore. Un paese occidentale può competere solo sulla qualità, che non si ottiene dal riportare in patria la produzione di alcuni particolari da assemblare. Ancora prima che industriale, economico o sindacale questo è un problema culturale: tutte le fasi di transizione richiedono coraggio. Pensiamo solo alle nuove tecnologie: per fare un passo verso il futuro dobbiamo abbandonare qualcosa a cui siamo legati da tantissimo tempo. Coraggio e visione fanno la differenza.
Cosa possono fare le piccole e medie imprese?
Le piccole e medie imprese costituiscono un valore imprescindibile per il nostro Paese non solo perché rappresentano il 90% del tessuto imprenditoriale, ma anche perché è in queste che i guadagni legati alla produttività potrebbero essere molto importanti. Ma per farlo bisogna pensare alle reti: i singoli imprenditori, che hanno sempre meno tempo per dedicarsi agli aspetti anche burocratici delle nuove tecnologie, potrebbero trovare un valido aiuto nelle associazioni di categoria che li rappresentano. Mettersi in rete significa puntare sulla formazione delle nuove competenze, ma anche del datore di lavoro: senza un buon manager anche il collaboratore più valido non saprà che farsene delle sue competenze.
Un dibattito sui salari deve partire da come e quanto è cambiato il mercato del lavoro?
Dagli anni Novanta, secondo i dati Ocse, l’Italia è l’unico paese in cui i redditi da lavoro sono scesi in parità di potere di acquisto. La questione salariale in senso stretto c’è, ma forse non è il fattore più importante: da quegli anni Novanta, ad oggi, si è sviluppato moltissimo il lavoro discontinuo, che racchiude sia il lavoro temporaneo e sia il part time involontario. Fino agli anni Ottanta il modello di lavoro, legato al modello economico della fabbrica, era cadenzato da un orario che andava dalle ore 08.00 alle ore 17.00. Si seguiva, se così posso dire, la catena di montaggio: tutti insieme, con la stessa pausa e gli stessi ritmi. Con lo sviluppo dei servizi, e con il cambio della società e dei costumi, si comincia a spezzettare il lavoro per soddisfare la domanda di una maggiore flessibilità da parte dei collaboratori ma anche dai datori di lavoro. Una volta tutti erano dipendenti dell’impresa: amministratore delegato, ingegneri, mensa, vigilanza, pulizie. Ora, per una ragione di efficienza e crescita della produttività, il lavoro si è spezzettato: ci si specializza su un core business. Per esempio, un’impresa progetta il pistone e un’altra lo realizza. I servizi di mensa, vigilanza e pulizie sono affidate a società esterne. Così, se un tempo i guadagni di produttività del pistone venivano redistribuiti a tutti, a cascata, ora non accade più. E mense, vigilanza e pulizie competono sul prezzo. Il mercato del lavoro è cambiato radicalmente, ma la maggiore responsabilità non la dobbiamo dare all’introduzione delle forme precarie.
Cosa intende?
I contratti discontinui sono caratteristici di qualunque economia moderna. Il problema vero sta nei tempi: le riforme italiane sono nate in un momento in cui si assisteva al blocco della produttività e, di conseguenza, al blocco della crescita delle imprese italiane. Si è trattato di aggiustamenti al margine senza magari fare quello sforzo in termini di investimenti, formazione e crescita di cui si parlava prima. Questo ha permesso un galleggiamento che ha poi portato ad una incidenza importante di contratti temporanei e di parti time involontari, in Italia più forte che altrove. Trasformazioni sì, ma soprattutto giuridiche e non economiche.
Il blocco della crescita ha portato a salari bassi e i salari bassi ostacolano la crescita e la produttività.
Penso che una via d'uscita ci possa essere. Anche se sul fronte dell’occupazione il nostro paese è ultimo in Europa, i numeri di questi ultimi tre o quattro anni sono comunque da record: il mercato del lavoro ha dimostrato una resistenza significativa. Un “eppur si muove” a cui non avremmo creduto neppure pre-Covid. Voglio pensare che quel “eppur si muove” possa interessare anche i salari.
Come?
Innanzitutto parlandone, come si sta facendo in quest’ultimo periodo - nel dibattito politico la questione dei salari ha conquistato una sua centralità - e affrontando il tema nella sua complessità: si è parlato molto di salario minimo, ma questo riguarda una porzione bassa della popolazione. In un paese Ocse, questo copre il 6% dei lavoratori. In Francia si arriva al 12% o il 15%. Però, resta un 85% dei lavoratori che percepiscono salari medi e salari elevati. E questo si lega anche alle piccole e medie imprese, dove sono poche le posizioni dirigenziali ben pagate. Il 75% dell’Irpef è pagato dal 25% dei contribuenti che guadagna più di 29mila euro lordi. In Italia è classe media, ma in assoluto non è Paperon de’ Paperoni. Per quanto riguarda quelli alti, dobbiamo interrogarci sul fatto che i ragazzi che escono dal Politecnico, o da qualunque altra università, che sono laureati o dottorati, non ce li teniamo con il salario minimo. Soluzioni rapide e facili, però, non ce ne sono.
Cosa propone?
Mettiamo da parte le narrazioni storiche che parlano di turismo come petrolio dell’Italia, di edilizia come motore della crescita e di “piccolo è bello” e cerchiamo di investire, invece, sulla crescita delle aziende e sulla formazione di collaboratori e manager. Inoltre, dobbiamo affrontare tutto ciò che riguarda le relazioni industriali e il funzionamento dei contratti collettivi, perché l’invecchiamento della popolazione avrà un impatto su tutte le variabili dell’organizzazione del lavoro: in un mercato del lavoro italiano dove, ogni mese, si registrano più uscite che entrate le imprese rischiano di avere meno teste e meno braccia. Ma per i nuovi lavoratori questo potrebbe essere un vantaggio perché il lavoro, che sarà un bene scarso, potrebbe essere valorizzato di più. Sostituito sì da macchine e tecnologie, che avranno un effetto positivo sulla produttività, ma a beneficio di imprese e lavoratori (3. Fine) Davide Ielmini