Diretta Item: chi paga davvero il costo del lavoro in Italia oggi?

Diretta Item: chi paga davvero il costo del lavoro in Italia oggi?

Il costo del lavoro è da sempre una delle variabili più discusse e divisive dell’economia italiana. Se ne parla spesso, ma con prospettive parziali o tecniche, che faticano a restituire la complessità del tema. Proprio per offrire uno sguardo più ampio e profondo, il 5 giugno 2025 il ciclo “Item d’Impresa” ha dedicato un nuovo appuntamento in diretta social a questo argomento strategico.

L’obiettivo? Andare oltre i numeri, per comprendere l’impatto sociale, territoriale e culturale del costo del lavoro in Italia. E interrogarsi sulle sue ricadute reali per chi fa impresa, per chi lavora e per chi deve governare i processi di trasformazione.

A confrontarsi su questi temi, tre voci autorevoli e complementari: Antonio Belloni, coordinatore del Centro Studi Imprese e Territorio di Artser; Gianluigi Bovini, statistico e demografo; Andrea Colli, professore di Storia Economica all’Università Bocconi.

TRA IMPRESE, LAVORATORI E STATO: CHI PAGA IL PREZZO PIÙ ALTO?

La discussione si è aperta con una domanda provocatoria rivolta da subito ai relatori: «Chi oggi subisce di più il costo del lavoro? Le imprese, i lavoratori o il Paese?». I dati offrono un primo spunto di riflessione: il cuneo fiscale complessivo sul lavoro in Italia supera il 47%, contro una media OCSE del 34% (dati del 2023). Allo stesso tempo, la produttività — vera "benzina" del sistema economico — è stagnante da oltre vent’anni. Belloni ha chiarito fin da subito: «È un problema per tutti: per le imprese, per i lavoratori e per lo Stato.» Citando l’ex Amministratore Delegato di Luxottica Andrea Guerra, ha ricordato come spesso «il costo sia troppo alto per l’azienda e la resa troppo bassa per il dipendente».

Belloni ha quindi spiegato che, per le imprese, il costo del lavoro incide fortemente sulla competitività, mentre per i lavoratori il netto in busta paga è ancora insoddisfacente. Ma anche per il sistema Paese esistono criticità: «Lo Stato incassa molto, ma consumi, benessere e capacità di risparmio dei cittadini ne risentono. È un meccanismo che impoverisce il tessuto economico». Per chiarire con un esempio concreto, Belloni ha illustrato i dati relativi a una retribuzione annua lorda (RAL) di 30mila euro: «Tra contributi del datore di lavoro (+32%) e altri costi (TFR, benefit), il costo totale per l’impresa arriva a circa 41mila euro. Ma il netto che percepisce il lavoratore è molto più basso: ecco il vero peso del cuneo fiscale».

COSTO DEL LAVORO E PRODUTTIVITÀ: UNA QUESTIONE DI MODELLO

Su questo quadro si innesta la riflessione storica proposta da Colli: «Nella storia economica italiana non è mai stato facile pagare bene il lavoro». Durante il boom economico del dopoguerra, i salari crescevano insieme alla produttività grazie agli investimenti e al Piano Marshall. «Oggi non è così: la crescita salariale non è sincronizzata con la produttività».

Secondo Colli, il costo del lavoro dipende da tre fattori principali: disponibilità di lavoro, qualità del lavoro e componente fiscale. La disponibilità di lavoro è legata a dinamiche storiche: «In passato la domanda di lavoro cresceva e il sistema assorbiva forza lavoro dalle campagne e dal Sud. Oggi il contesto è diverso e più rigido».

La qualità del lavoro è un tema ancora aperto: «L’Italia ha storicamente privilegiato modelli occupazionali di massa o un artigianato diffuso, non sempre ad alta produttività. Il Made in Italy non è sempre sinonimo di alta qualificazione.» Infine, la componente fiscale: «Dopo il dopoguerra abbiamo scelto un modello socialdemocratico in cui il peso fiscale sul lavoro è alto. In teoria dovrebbe compensarsi con un sistema di welfare efficiente. Ma oggi questo meccanismo non funziona più in modo soddisfacente, soprattutto sul fronte della sanità».

DEMOGRAFIA E FORZA LAVORO: EMERGENZA GIÀ IN ATTO

Bovini ha riportato l’attenzione sulla transizione demografica, un fattore che rischia di aggravare ulteriormente la crisi del lavoro. Entro il 2033 l’Italia potrebbe perdere oltre quattro milioni di lavoratori, tra pensionamenti e calo delle nascite. Il 2024 ha segnato un nuovo minimo storico, con poco più di 370mila nati. Secondo l’Istat, entro il 2050 la forza lavoro potenziale potrebbe ridursi di otto milioni di persone, un dato che riguarda già oggi territori come l’Emilia-Romagna e la Lombardia. «La carenza di manodopera è una realtà con cui molte imprese si confrontano ogni giorno», ha sottolineato Bovini, evidenziando come questa tendenza sia destinata a peggiorare negli anni a venire.

«E non è solo un problema futuro: oggi, per ogni 150 lavoratori tra i 40 e i 64 anni, ci sono appena 100 giovani tra i 15 e i 39. E perdiamo anche i migliori, che abbiamo formato in università riconosciute a livello internazionale», ha spiegato. Il paradosso è evidente: avremmo ampi margini per aumentare i tassi di occupazione giovanile e femminile, storicamente molto bassi, ma rischiamo di compensare un male (calo demografico) con un altro (disoccupazione strutturale), senza affrontare la radice del problema.

TALENTI IN FUGA E SALARI POCO COMPETITIVI

Nel confronto internazionale, ha spiegato Belloni, la differenza non sta tanto nella pressione fiscale quanto nella qualità dei servizi pubblici. «In Paesi come la Francia, il cittadino percepisce un ritorno tangibile in termini di welfare e infrastrutture. Da noi questo meccanismo non funziona, e il divario tra costo per le imprese e salario netto per i lavoratori genera frustrazione», ha osservato, ricordando come il sistema italiano resti meno attrattivo per chi lavora e per chi fa impresa.

La qualità del lavoro e la capacità di trattenere i talenti restano un altro nodo cruciale. Belloni ha ricordato che il problema non riguarda solo le mansioni a bassa qualificazione: «Anche i giovani più preparati ricevono offerte inadeguate», ha detto, citando il caso di un ingegnere civile cui è stato proposto un contratto di sei mesi per 600 euro netti al mese. Non sorprende, dunque, che secondo la Camera di Commercio di Varese quattro neolaureati su dieci scelgano di trasferirsi all’estero. Un impoverimento netto per il sistema produttivo e per il Paese, che investe nella formazione senza riuscire poi a trattenere le competenze.

PICCOLE IMPRESE E MODELLI IMPRENDITORIALI DA RIPENSARE

Colli ha offerto una riflessione di lungo periodo, ricordando che il modello di sviluppo italiano è sempre stato bipolare: da un lato le grandi imprese del triangolo industriale del Nord, dall’altro il tessuto diffuso di piccole imprese e distretti. Oggi, però, il panorama sta cambiando. «Le grandi aziende italiane sono sempre meno, e nel confronto internazionale risultano piccole. Stiamo assistendo a un capitalismo nuovo, fatto di medie imprese molto specializzate e competitive a livello globale», ha sottolineato Colli. In queste realtà, il lavoro tecnico e manuale è sempre più qualificato. «Il tornitore oggi è mezzo ingegnere», ha detto.

Ma per trattenere i talenti serve qualcosa di più: «Non basta il salario, serve creare organizzazioni orizzontali, capaci di offrire spazi di creatività, autonomia e coinvolgimento imprenditoriale interno». Una sfida culturale che riguarda molte imprese. Anche Belloni ha ribadito che per le imprese è fondamentale poter pianificare nel lungo periodo. «Non possiamo continuare a ragionare su orizzonti di due o tre anni, mentre sui bonus casa garantiamo certezze per dieci», ha detto. In un contesto di norme sul lavoro che cambiano frequentemente, molte aziende trattano il costo del lavoro come una voce puramente corrente, rinunciando a considerarlo un investimento. «Eppure le aziende che pagano di più, che investono sul dipendente e sul brand, trovano più facilmente personale e costruiscono valore anche sul mercato», ha ricordato Belloni, chiedendo ai decisori politici maggiore stabilità normativa.

LAVORO POVERO E POTERE D’ACQUISTO IN CRISI, ANCHE DELLA CASA

Bovini ha messo in guardia anche sul peggioramento della qualità del lavoro. «Per la prima volta negli ultimi anni, gli indicatori di povertà relativa iniziano a comprendere una quota crescente di lavoratori occupati», ha spiegato. In altre parole, sempre più persone, pur avendo un impiego, non riescono a garantire a sé e alla propria famiglia un livello di vita dignitoso. Il fenomeno, oltre a ridurre le entrate fiscali e contributive, genera anche un maggior costo per lo Stato, chiamato a intervenire con politiche di sostegno spesso inefficaci. Tra le cause principali, il peggioramento del potere d’acquisto, in particolare per i giovani. «Oggi in città come Milano, Roma e Bologna, un giovane senza supporto familiare non riesce ad accedere in modo dignitoso né all’acquisto né all’affitto di una casa», ha sottolineato Bovini.

Belloni ha aggiunto che il problema abitativo non riguarda solo i giovani. «A Milano oggi neanche insegnanti, forze dell’ordine e personale sanitario riescono più a sostenere il costo della vita», ha detto, citando il caso di 790 insegnanti che hanno lasciato la città per tornare nei luoghi d’origine. Di fronte a questa emergenza, alcune aziende hanno iniziato a inserire la casa tra i benefit offerti ai dipendenti. «All’estero, in Paesi come il Lussemburgo, queste politiche esistono da anni», ha ricordato il moderatore. Anche Colli ha sottolineato il legame storico tra abitazione e lavoro, ricordando come già nella prima industrializzazione gli imprenditori dovessero offrire soluzioni abitative per attrarre i lavoratori nelle aree produttive. Un tema che oggi torna d’attualità e che potrebbe rappresentare, per molte imprese, un elemento chiave per restare competitive.

UN NUOVO APPROCCIO AL LAVORO PER LE IMPRESE ITALIANE

Colli ha voluto chiudere con una riflessione positiva. Osservando l’evoluzione del capitalismo italiano, ha evidenziato come molte imprese stiano già adottando modelli più virtuosi. «Oggi vedo aziende che, pur restando familiari, sanno aprirsi a un management moderno, all’internazionalizzazione e soprattutto a un diverso rapporto con il lavoro», ha spiegato. Al centro di questo approccio c’è la volontà di considerare il lavoro non come un costo, ma come un investimento. «Le imprese che sanno delegare responsabilità e stimolare l’imprenditorialità interna sono quelle che funzionano meglio», ha sottolineato. E in molte aree del Paese, anche meno visibili, esistono già esempi concreti di questo modello.

Colli ha anche richiamato l’importanza del ricambio generazionale all’interno delle imprese. «Ogni generazione deve avere il coraggio di non restare nel solco tracciato da quella precedente, ma di innovare. Per le piccole e medie imprese questo è fondamentale per restare longeve e competitive», ha concluso.

Il confronto tra i relatori ha restituito un quadro chiaro: il tema del costo del lavoro in Italia non può essere affrontato solo sul piano fiscale o salariale. Demografia, qualità del lavoro, attrattività del sistema Paese e capacità di innovare i modelli imprenditoriali sono fattori strettamente intrecciati. La sfida per il futuro passa da un cambiamento culturale: servono imprese capaci di investire sulle persone e un quadro normativo stabile, che dia certezza e orizzonte alle scelte imprenditoriali. Solo così sarà possibile costruire un mercato del lavoro più inclusivo, dinamico e competitivo, in grado di trattenere talenti e attrarre nuove energie per l’Italia. Elisa Marasca

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