di Mauro Colombo *
La globalizzazione ha portato benefici significativi alle imprese, favorendo la crescita economica e l'innovazione in numerosi settori. Tuttavia, essa ha anche acuito squilibri economici e sociali, creando diseguaglianze che, in assenza di adeguate politiche di redistribuzione, hanno alimentato un crescente malcontento. Di fronte a queste tensioni, il protezionismo viene spesso presentato come soluzione, ma la teoria economica ne mette in dubbio l’efficacia. Specializzazione e vantaggio comparato favoriscono una crescita sostenibile, mentre le barriere commerciali rischiano di generare danni strutturali, penalizzando non solo i consumatori, ma anche le aziende che dipendono dalle dinamiche del commercio internazionale.
Il vero problema non è il libero scambio in sé, bensì l’assenza di politiche redistributive capaci di mitigare gli effetti negativi della concorrenza globale. Ad esempio, la liberalizzazione può aumentare la produttività aggregata, favorendo l’efficienza complessiva del sistema economico, ma senza meccanismi di sostegno alle fasce più vulnerabili, rischia di amplificare le disuguaglianze. Il protezionismo, invece di correggere queste dinamiche, finisce per alimentare inefficienze: dazi e restrizioni distorcono i mercati, facendo lievitare i costi per le imprese e riducendo la competitività internazionale. In un contesto di crescente interconnessione, isolarsi dal mercato globale può avere conseguenze deleterie, portando a un rallentamento dell'innovazione e a una perdita di competitività rispetto ai paesi che continuano a promuovere il libero commercio.
Le politiche commerciali che Donald Trump aveva applicato nel 2018 nel suo primo mandato presidenziale, mirate a proteggere il mercato interno attraverso l’introduzione di dazi e barriere tariffarie, illustrano bene questi rischi. L’idea di proteggere il lavoro locale attraverso il protezionismo si scontra con la realtà di un’economia fortemente interconnessa, dove le imprese dipendono da catene di approvvigionamento globali. L’imposizione di barriere doganali, sebbene pensata per tutelare le industrie nazionali, ha finito poi per danneggiare molte imprese statunitensi che necessitano di componenti e materie prime provenienti dall’estero. Inoltre, il costo dei beni importati è aumentato, impattando negativamente sui consumatori americani.
Così come, per le aziende europee, fortemente orientate all’export, l’effetto è stato ancora più critico. Settori di punta come l’automotive e il lusso hanno subito un calo della marginalità a causa delle difficoltà di accesso al mercato statunitense, mentre le PMI manifatturiere, fortemente dipendenti da materie prime importate, hanno dovuto affrontare un incremento dei costi di produzione. L'instabilità generata da queste politiche ha spinto molte aziende a rivedere le proprie strategie, cercando nuovi mercati e diversificando i propri partner commerciali per ridurre la dipendenza da un unico paese.
Si ripeterà nel 2025 lo stesso risultato ? E' probabile.
In Italia e in Europa, il modello produttivo si basa su un’integrazione internazionale e su filiere transnazionali che rendono difficile l’adozione di politiche protezionistiche senza incorrere in pesanti ripercussioni. L’introduzione di nuovi dazi altererebbe questo equilibrio, minacciando soprattutto le realtà imprenditoriali che non hanno la capacità di assorbire costi aggiuntivi. Le Pmi, in particolare, rischierebbero di perdere competitività, trovandosi in difficoltà nel mantenere i margini operativi.
Uno studio della Banca Mondiale (2022) evidenzia come le regioni ad alta esposizione commerciale, prive di politiche di compensazione adeguate, registrino tassi di disoccupazione superiori del 15% rispetto a quelle con sistemi di welfare avanzati. Al contrario, paesi come la Germania, che investono in formazione e riconversione industriale, hanno trasformato la globalizzazione in un volano di crescita inclusiva, dimostrando che l’apertura commerciale, se accompagnata da politiche di supporto adeguate, può portare a una crescita equilibrata e sostenibile.
Per navigare in un contesto sempre più instabile e caratterizzato da tensioni commerciali, le imprese devono adottare approcci flessibili e lungimiranti. Una strategia chiave è la diversificazione dei mercati, riducendo la dipendenza da singole aree geografiche a rischio protezionistico ed esplorando opportunità in economie emergenti, in particolare in Asia e Africa. Parallelamente, l’innovazione tecnologica assume un ruolo determinante: investire in automazione, digitalizzazione e Industria 4.0 consente di mitigare gli effetti negativi dei dazi e di aumentare l’efficienza produttiva.
Un’altra leva strategica è il ripensamento delle supply chain, bilanciando fornitori globali con reti locali e regionali per mitigare i rischi geopolitici e garantire una maggiore stabilità operativa. Infine, la collaborazione tra settore pubblico e privato è essenziale per creare programmi di riqualificazione e formazione professionale che consentano ai lavoratori di adattarsi alle trasformazioni del mercato del lavoro.
Oltre alle strategie aziendali, è fondamentale che i governi adottino misure sistemiche per rendere il commercio internazionale più equo e sostenibile. L’introduzione di crediti d’imposta per l’innovazione può incentivare le imprese a investire nella transizione ecologica e digitale, riducendo il gap competitivo con le economie più avanzate. Allo stesso tempo, è cruciale sostenere i lavoratori dei settori in declino attraverso fondi destinati alla mobilità professionale, finanziando programmi di formazione e riconversione per facilitare il passaggio a nuovi settori produttivi.
* Direttore generale di Confartigianato Varese
La regolamentazione del commercio internazionale dovrebbe inoltre includere clausole sociali e ambientali all’interno degli accordi commerciali, garantendo che le condizioni di lavoro e gli standard ecologici siano rispettati. Trattati come l’accordo UE-Mercosur rappresentano un modello per evitare forme di concorrenza sleale e promuovere un commercio più equo e responsabile.
Il protezionismo non è una soluzione strutturale ai problemi generati dalla globalizzazione, ma un rimedio temporaneo che rischia di aggravare le difficoltà economiche e sociali. La vera sfida consiste nella costruzione di un modello ibrido, che combini apertura commerciale e politiche di equità, supportando le imprese nell’innovazione e rafforzando le reti di sicurezza per lavoratori e PMI. L’Europa, con il suo sistema di welfare avanzato e il focus sulla transizione ecologica, ha l’opportunità di guidare questo cambiamento, trasformando le sfide della globalizzazione in occasioni di crescita sostenibile e inclusiva.