
Dopo l'intervista a Marco Fortis, vicepresidente di Fondazione Edison, l'inchiesta di Confartigianato Imprese Territorio sulla crisi del settore manifatturiero prosegue con le riflessioni di Mauro Gallegati, docente all'Università Politecnica delle Marche - ed economista di fama internazionale - che nella sua lunga garriera ha collaborato anche con Bruce Greenwald (economista e professore alla Columbia Business School) e il Premio Nobel Joseph Stiglitz. A lui chiediamo come si può rallentare la discesa libera di un comparto che, per anni, ha rappresentato l’eccellenza del “saper fare” italiano.
Professore, lei sostiene che la crisi attuale è dovuta ad un manifatturiero che sta morendo e non alla finanza: perché?
E’ ormai da trent’anni che la manifattura italiana sta perdendo valore aggiunto e numero di occupati. Ed è per questo che immagino un futuro con sempre meno imprese di produzione e sempre più attività di servizi a basso valore aggiunto e, quindi, poco qualificati. Se a tutto questo, poi, aggiungiamo la finanza speculativa ecco arrivare allo smantellamento di quell’intelligenza produttiva italiana che, nella competizione globale, ha sempre fatto la differenza. Spesso ci si dimentica che la finanza è un derivato dell’economia, non il contrario, e cresce quando l’economia reale – la produzione - decresce. Però, la finanza non potrà mai prendere il posto della tecnologia e di un capitale umano competente: è la manifattura a creare ricchezza, a dare occupazione e a generare stabilità.
Cosa sta accadendo?
L’intera economia sta procedendo velocemente verso la terziarizzazione, ma questo non è e non può essere il driver principale capace di reggere un sistema. Globalizzazione, delocalizzazioni e politiche industriali frammentarie hanno portato il comparto manifatturiero a perdere quella centralità che aveva un tempo. Quando si smantella il tessuto produttivo si perdono competenze, filiere, capacità di innovare. E si entra in un cono d’ombra dove si trovano precarietà e disoccupazione strutturale.
Secondo lei quali sono i temi sui quali dovranno puntare le imprese del manifatturiero per scrivere il loro futuro?
Gli imprenditori devono investire in nuove tecnologie, anche grazie a Industria 4.0, e nell’Intelligenza Artificiale: solo così potranno rendere i propri
prodotti sempre meno standardizzati. Ma non parlo semplicemente di software e robotizzazione: per ritrovare slancio servono una politica industriale che parta dall’alto (gli incentivi a pioggia non servono, bisogna sostenere e sviluppare le filiere e il loro know how) e una cultura industriale – il ruolo economico ma anche sociale dell’impresa – che permei la società. A partire dalle scuole, perché servono collaboratori preparati ad affrontare le sfide della digitalizzazione e della transizione ecologica. Questo è un punto fondamentale, perché penso che il futuro della manifattura stia nella customizzazione. Produrre beni personalizzati porta le imprese in quelle nicchie nelle quali la manifattura può esprimere tutti i suoi valori: non solo produzione materiale, ma anche e soprattutto un’alta rappresentazione del sapere e del saper fare e della capacità di innovare.
Invece, le imprese rischiano di perdere le competenze
La deindustrializzazione ha portato ad una perdita di competenze, ha desertificato le filiere e ha indebolito i territori. Sui quali si gioca il vero valore aggiunto dell’imprenditoria tra relazioni e collaborazioni all’interno delle comunità produttive. Come dicevo prima, questo è il risultato di una globalizzazione che ha creato diseguaglianze. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto le piccole e medie imprese, che spesso sono sottocapitalizzate e, quindi, non hanno la forza per sostenere la concorrenza internazionale. Inoltre, bisognerebbe spingere gli investimenti pubblici proprio nelle attività manifatturiere per sostenere la formazione e la ricerca.
Teme che la crisi della manifattura sia ormai strutturale?
Penso proprio di sì. Le imprese italiane hanno sempre dimostrato una grande capacità di adattamento grazie alla loro creatività e alla capacità di risolvere problemi che, per altri, sono irrisolvibili. Uno fra i nostri più grandi valori sta proprio in questa unicità: fare cose che altri non sanno fare. Ecco perché insisto sulla specializzazione. Purtroppo, l’Italia non pianifica e non investe più perché temo abbia smesso di credere nel valore del “fare”. E invece è proprio su questo che dobbiamo scommettere: sulle nostre eccellenze, sulle nostre competenze, sulla cura artigianale e sull’innovazione diffusa. Perché la manifattura italiana non è finita, e non lo sarà mai se la si saprà sostenere e raccontare.
Come si potrà adeguare l’impresa manifatturiera ad un mondo instabile come è il nostro?
Dobbiamo scommettere sul lavoro dell’uomo, perché l’economia libera – a causa delle teorie neoliberiste – non è più uno strumento di libertà, anzi. Se siamo arrivati fino a questo punto lo dobbiamo ad un sistema che non ha tenuto conto delle dinamiche reali dell’economia, ecosistema complesso ma dinamico e interattivo. Ecco perché ritengo sia importante arrivare ad una politica economica europea che sappia trainare una rinascita imprenditoriale imperniata su conoscenza, ricerca e sviluppo.
Davide Ielmini (Seconda puntata)