Environmental, social governance: i parametri Esg non sono il futuro prossimo delle aziende, ma il presente. Lo scenario è cambiato, i valori non economici devono assumere la medesima importanza di quelli economici, al fine di perseguire una crescita sostenibile a tutto tondo. Che passa anche – e appunto – dalla valutazione dei rischi ambientali, sociali e di governance. Solo così si può garantire un’effettiva continuità aziendale ed è possibile ampliare i propri orizzonti, mantenendosi competitivi e attirando investitori. Ciò vale per tutte le aziende, grandi e piccole, senza eccezioni. Chi resta indietro riguardo a queste tematiche e ai relativi interventi, è destinato a pagare un amaro scotto.
Ma la verità è che molte Pmi si dibattono ancora tra grandi dilemmi. Si chiedono cosa si intenda esattamente per Esg, come introdurre tali criteri, quali standard implementare. Quali azioni intraprendere. Ebbene, una corretta informazione è la strada principe. In questa sede ci focalizzeremo sulla E di Environmental, ovvero sulle tematiche strettamente legate all’ambiente. Sui fattori che permettono di valutare quanto sia sostenibile l’attività di un’azienda. E sui motivi per cui essere “Environmental compliant” è oggi fondamentale. Ne abbiamo parlato con Stefano Pogutz, docente di Practice di Corporate Sustainability alla SDA Bocconi School of Management e direttore del programma internazionale Full-Time MBA di SDA Bocconi.
I DUE GRANDI FATTORI CRITICI
A proposito di Enviromental, spiega Stefano Pogutz, ci sono innanzitutto due grandi fattori critici: «Il cambiamento climatico, dinanzi al quale la transizione energetica diventa una priorità, e la circolarità. Che implica un’ottimizzazione dell’uso delle risorse. Quindi l’impatto-rischio legato al clima e l’impatto-rischio legato all’uso delle risorse: sono queste le dimensioni prevalenti della E».
Cosa significa per una Pmi? Inevitabilmente, maturare una serie di consapevolezze. Anche perché «la logica stringente, nella componente finanziaria, spinge l’investitore a chiedere massima trasparenza circa le attività svolte dall’azienda in relazione al tema delle risorse». Questo è un concetto chiave, che va assimilato bene.
La maggior parte dei grandi investitori, ormai, si basa proprio sui parametri Esg nella scelta dei propri interlocutori. Perché necessitano di adeguarsi alle normative vigenti e spesso si sono ufficialmente prefissati importanti obiettivi nel breve termine, a cominciare dall’impatto zero. Di conseguenza, un’azienda che – per esempio – utilizza energia non derivante da fonti rinnovabili rappresenta un soggetto a rischio. Troppo a rischio: meglio passare oltre. «È quindi un processo a cascata – continua Pogutz – e spesso le Pmi sono tirate dentro per il loro ruolo di fornitori».
GLI INPUT CHE ARRIVANO DALLE DIRETTIVE INTERNAZIONALI
Ma se è vero che da una parte «il rischio è quello di non avere competenze per affrontare questo tipo di trasformazione», dall’altra «per cercare di parametrare il comportamento delle aziende il regolatore sta dando una serie di impulsi che le spingono a rendicontare».
Basti pensare alla direttiva Csrd (Corporate sustainability reporting directive) introdotta dall’Unione Europea, che si traduce in una serie di nuove regole in materia di reporting di sostenibilità delle imprese e che di recente è stata estesa proprio ai fornitori. Ma anche alla tassonomia, ovvero al sistema di classificazione stabilito dalla stessa UE per determinare fino a che punto un’attività economica sia sostenibile. Tutte le direttive riguardano anche le Pmi, perché la sostenibilità ha ormai raggiunto lo status di driver strategico per la creazione di valore e competitività nel lungo periodo.
Ma c’è un altro ostacolo: «Molte Pmi – spiega Pogutz – tendenzialmente continuano a vedere la sostenibilità soltanto come un costo addizionale. E lo stesso vale per l’innovazione e la ricerca». Come se non bastasse, «sono poco propense a cambiare perché una quota rilevante ha beneficiato di investimenti fatti dai fondatori». Un po’ come cullarsi negli allori, senza riuscire a puntare lo sguardo più in là. Le eccezioni non mancano, puntualizza il docente, «c’è una quota che non teme l’agilità del cambiamento, che anzi ha colto l’opportunità e già traguardato la sostenibilità. Aziende che hanno saputo interpretare i trend in modo più intelligente, investito nelle rinnovabili e ottimizzato i cicli produttivi, abbattendo le emissioni. E ottenendo molti più benefici rispetto ai concorrenti: chi si allinea aumenta la propria quota di mercato, ma è anche meno esposto all’aumento dei prezzi delle materie prime».
«La retorica è che la sostenibilità costa di più, ma si tratta di una lettura sbagliata. Lo dimostrano le ricerche analitiche di tanti brand in crescita».
L'IMPORTANZA DEI CONSUMI
Non solo. L’applicazione dei criteri che definiscono la E di Environmental porta a usufruire di altri vantaggi legati al consumo: «Le giovani generazioni sono sempre più interessate a fare acquisti in aziende che hanno queste caratteristiche, i prodotti green hanno incrementato le quote di mercato. Si sta creando una frattura tra i grandi cluster, di conseguenza una netta divisione tra chi ha perso valore di acquisto e chi invece l’ha nettamente aumentato». Per la Pmi che si trova dalla parte giusta della filiera, i risultati sono degni di nota. «La sostenibilità sta presentando il conto», riflette Pogutz. E continuerà a farlo.
Torniamo al seguente concetto: la sostenibilità è un costo addizionale. Questa visione poteva avere qualche fondamento 25 anni fa, se non di più. Adesso non ha davvero più senso, «anche perché sono cambiate tre condizioni: il mercato è interessato a questi prodotti; se non ti adegui è un problema tuo, vuol dire che sei miope. Ma sarai fuori dal mercato entro 5-6 anni. E ancora, l’attenzione degli investitori è oggi un moltiplicatore tra entrate e uscite molto elevato, basilare nella prospettiva di crescita. Terzo: il regolatore impone nuovi requisiti per la rendicontazione, tramite tasse e costi economici vincola a inquinare di meno». È chi non si sintonizza, mantenendo un asset obsoleto, a spendere di più. Mentre i concorrenti risparmiano: la visione è quindi da capovolgere.
DA DOVE COMINCIARE
Una volta compresa l’importanza della E di Esg e deciso di rispondere al meglio dinanzi a un mercato che cambia, cosa fare? Da dove cominciare?
«Occorre – risponde Stefano Pogutz – essere capaci di identificare le priorità in funzione del settore in cui si opera, dell’attività che si svolge, dei clienti e dei mercati. Quindi individuare gli elementi critici e cominciare a porre rimedi, per esempio sviluppando la circolarità dei rifiuti e delle risorse». Da non trascurare è la compliance aziendale: «Bisogna essere in regola».
Quindi, consigliabile è valutare quali opportunità si possano aprire facendo determinati investimenti e capire se ci sia un’esposizione a rischi non facendo determinate cose. Considerare i rischi sia materiali che finanziari è un altro step importante. Compiuta una prima analisi di questo tipo, si interviene a valle. Tramite l’acquisizione di competenze e strumenti. Un supporto esterno, proveniente ad esempio a un’associazione di categoria, può davvero essere di grande aiuto; «una risorsa esterna, preparata e illuminata, che si affianchi alla famiglia» diventa assai preziosa.
Infine, si identificano le azioni con cui procedere in un periodo che copra alcuni anni. «Non servono pressioni forti, alcune cose vanno fatte subito e per altre c’è più tempo. Nessuno ha la bacchetta magica». L’importante è iniziare. Nadine Solano