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Il lavoro che cambia / 1: «I giovani ci sono, ma vogliono lavorare solo a certe condizioni»

Il lavoro che cambia / 1: «I giovani ci sono, ma vogliono lavorare solo a certe condizioni»

In Italia si fanno sempre meno figli e una buona parte di quelli che potrebbero entrare nel mercato del lavoro – la fetta di popolazione compresa tra i 25 e i 34 anni – non studia, non si forma e non cerca un’occupazione (i cosiddetti Neet). Gli economisti lo hanno definito “inverno demografico”, ed è un fenomeno che rischia di trasformarsi da episodico in strutturale. Alcuni dati, diffusi in occasione dell’evento “Il lavoro che cambia”, organizzato a Gallarate da Confartigianato Imprese Varese con docenti universitari, imprese e consulenti, hanno messo l’accento sul rischio che il nostro Paese sta correndo non solo a livello economico ma anche sociale. Il punto è questo: le figure professionali da portare in azienda si trovano sempre più a fatica e gli imprenditori, in questi ultimi tempi, si stanno sempre più affidando agli over 50. Non è solo una questione di disponibilità e competenze ma anche di esperienza. Eppure, se si vuole dare continuità alle aziende, nuove e vecchie generazioni devono costruire un ponte fra loro imparando le une dalle altre. Strategie e soluzioni non mancano, ma prima bisogna entrare nel vivo del problema.

DENATALITA’, NEET E IMPRESE CHE RINUNCIANO AGLI ORDINI
In questi ultimi anni, l’inverno si è fatto sempre più rigido: in Italia, dal 2008 al 2022, le nascite sono passate da 576.000 a 393.000. Un calo che prosegue ininterrottamente da 15 anni. E la situazione è critica anche nel 2023: nel periodo che va da gennaio a giugno le nascite sono circa 3.500 in meno rispetto allo stesso periodo del 2022, con una fecondità pari a 1,22 figli per donna. Secondo l’Istat, negli ultimi 9 anni si sono persi 1.561.000 abitanti (pari a tutti i residenti in una Regione come la Sardegna). I residenti, al 1° gennaio 2022, erano 60 milioni e 346 mila mentre risultano 58 milioni 781 mila il 31 luglio 2023. Metà delle donne in età fertile non ha neanche un figlio. A peggiorare la situazione interviene l’esercito (1,6 milioni di persone) dei Neet: un giovane su quattro, tra i 25 e i 34 anni, è inattivo. La percentuale, del 25,4%, è la più alta in tutta Europa dove la media si ferma al 15%.
Le conseguenze sulle imprese si fanno già sentire. Secondo i dati di Confartigianato Lombardia, il 46% delle piccole e medie imprese non accetta parte delle nuove commesse perché non ha trovato dipendenti, o perché non riesce a formarli, e il 29% ha dovuto ridurre le capacità produttive.

I GIOVANI CI SONO E VOGLIONO LAVORARE, ANCHE SE A CERTE CONDIZIONI

Il lavoro che cambia

Serafino Negrelli, direttore dell’Osservatorio Iassc e docente del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università Bicocca di Milano, lo dice in modo diretto: «Il problema demografico diventerà vincolante anche perché nei prossimi vent’anni la popolazione dai 15 ai 64 anni si ridurrà terribilmente. Soluzioni? Sul medio-lungo termine si potrebbero incentivare le nascite; sul breve termine, però, ricorrere ai dipendenti over 50 non è un errore. A livello salariale il costo è più alto rispetto ad un giovane, ma le esperienze sono maggiori. Inoltre, l’Italia dovrà inaugurare politiche sull’immigrazione diverse per attrarre, come fa la Germania, personale qualificato». Il professore, però, sgombra il campo da qualsiasi pregiudizio: «Non è vero che non ci sono i giovani. Anzi, molti sono disponibili a lavorare, o a lavorare a certe condizioni». Ed è questo il punto: a fare la differenza sono proprio quelle condizioni. E così cambia la natura ma anche l’offerta di lavoro.

CAMBIA LA NATURA DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA DI LAVORO
Partiamo da qui: da come la manifattura avanzata si sia trasformata in questi ultimi anni. Infatti, è sempre più «internazionalizzata (filiera di fornitura mondiale), istruita, intelligente e innovativa. Orientata alle qualifiche più professionalizzate e ai compiti che vanno al di fuori della routine. Anzi, la manifattura di oggi penalizza il lavoro di routine sia manuale che intellettuale», prosegue il professore. Ma se da un lato cambia la domanda, dall’altra a cambiare è anche l’offerta: «I lavoratori non accettano più proposte al ribasso e i giovani dettano le loro condizioni. E se in Svizzera trovano ciò che chiedono, se ne vanno». Il problema delle dimissioni volontarie è ancora presente nell’aria: nel 2022, si sono licenziati 2,2 milioni di lavoratori. In Lombardia, se ne sono andati 420mila nel 2021 e 556mila un anno dopo. La famosa “fuga dei cervelli” interessa l’8% dei laureati.

OBIETTIVI E FORMAZIONE: PRIORITA’ DIVERSE PER GENERAZIONI DIVERSE
Antonio Belloni, coordinatore del Centro Studi Imprese e Territorio di Artser, parte da una domanda: per quanto

Il lavoro che cambia

tempo un giovane si impegnerà a raggiungere il proprio obiettivo? Semplificando: se un 50enne investe tutta la sua vita nella famiglia e, a seguire, buona parte della sua esistenza per pagare il mutuo della casa, le rate dell’auto, lo smartphone e via così fino alle ferie, per un ventenne le priorità cambiano. E può accadere, come mostrato da Belloni che «una giovane se ne vada in Svizzera perché con due giorni di lavoro si può comprare la PlayStation 5». Ancora: vecchie e nuove generazioni come imparano nel tempo? Anche in questo caso, il contrasto è più che mai forte: «Un ventenne riceve la prima grossa parte di formazione dalla scuola, poi in azienda e poi ancora con la formazione per mantenere ciò che sa o per riqualificarsi. Nel caso di un 50enne è tutto diverso: la formazione scolastica è inferiore rispetto ad un giovane, però acquisisce da subito molta esperienza in azienda, si consolida con la formazione per poi aumentare ancora la propria professionalità». C’è ancora un punto sul quale concentrarsi: «Nell’arco della loro vita i giovani cambiano spesso azienda, magari sette o otto volte, e così facendo perdono competenze. Che devono riconquistare ad ogni nuovo passaggio. Il 50enne, invece, è possibile cambi una sola volta. Quindi la sua esperienza si rafforza sempre più».

AUDIT DELLE COMPETENZE E LISTA DEGLI ESPERTI
Tra il 2023 e il 2026 serviranno 4,5 milioni di lavoratori. Inoltre, 1,7 milioni li chiederà la crescita economica italiana e 2,8 milioni andranno a sostituire quelli che andranno in pensione. Ma per sostituire le persone, e far crescere i giovani in azienda, bisogna chiedersi “cosa devo sapere e saper fare?”. In pratica, continua Antonio Belloni, «ciò che può facilitare questo passaggio è l’audit delle competenze: un semplice foglio sul quale sono elencate le competenze di ciascun collaboratore, quando andrà in pensione e il passaggio di consegne tra senior e junior. La cosiddetta “lista degli esperti” aiuta l’imprenditore a definire quelle azioni che possono aiutarlo a trattenere i giovani in azienda. E’ per questo che è fondamentale il confronto tra 50enni e ventenni». Anche in questo caso, alcuni dati fanno suonare l’allarme: nel 2030 avremo 5 milioni di over 55 in più rispetto ad oggi. E le stesse imprese stanno invecchiando: cresce tra il 15% e il 25% la quota degli imprenditori che hanno tra i 50 e i 69 anni».

PERCHE’ I LAVORATORI SE NE VANNO E COME ATTRARRE I GIOVANI
In chiusura, Serafino Negrelli chiarisce i motivi per i quali un lavoratore se ne va da un’azienda: «La pensione (per dedicare maggior tempo alla famiglia), la riconsiderazione del proprio lavoro (vale soprattutto per le donne), il rimescolamento (si cerca di meglio) e la riluttanza a fare ritorno in ufficio se non c’è, per esempio, l’alternanza tra lavoro in sede e da remoto». A questo punto, bisogna trovare una risposta alla domanda delle imprese: trovato un giovane, dopo mille difficoltà, come lo si tiene in azienda? Negrelli inanella sei punti: «Puntare sulla retribuzione sarebbe la leva più efficace, ma se proprio non si può allora potrebbe funzionare un mix fatto di welfare, riduzione dell’orario di lavoro, smart working, percorsi innovativi di formazione e carriera, negoziazione collettiva o individuale».