I vincoli invisibili che bloccano la competitività italiana

La stagnazione della produttività italiana (+2,5% in 25 anni contro +19,6% UE) dipende da vincoli strutturali: cuneo fiscale al 47%, rigidità della spesa pubblica, sotto-investimento in istruzione, inefficienza Pa

758x416 immagine sito PESO DEL SISTEMA

La stagnazione della produttività italiana non è un mistero irrisolto né il risultato di una presunta scarsa capacità imprenditoriale. È il frutto prevedibile di un sistema-Paese che impone alle imprese costi, vincoli e inefficienze che in altri contesti europei non esistono o pesano molto meno. Il quaderno numero 2 della Collana Quadrante del Centro Studi Imprese Territorio documenta con precisione analitica come questi vincoli strutturali formino un groviglio dal quale è difficile uscire con interventi parziali.​

LA DIMENSIONE DEL PROBLEMA

I numeri sono impietosi: tra il 1995 e il 2023 la crescita media annua della produttività italiana è stata dello 0,4%, contro l'1,5% della media UE27. In termini cumulati, negli ultimi 25 anni l'Italia ha registrato un incremento di produttività del 2,5%, mentre Francia, Germania e Spagna hanno fatto segnare rispettivamente +9,7%, +16% e +18%. Se l'Italia avesse mantenuto un tasso di crescita in linea con la media europea, oggi il nostro PIL sarebbe superiore di centinaia di miliardi di euro e gli stipendi reali sarebbero significativamente più alti.

La caratteristica distintiva di questa stagnazione è la sua pervasività: non si tratta di alcuni settori in difficoltà, ma di un fenomeno che attraversa l'intera economia. Nel periodo 2000-2019 la produttività italiana è cresciuta meno dei competitor in tutti i settori, dall'industria ai servizi. Questo dato esclude spiegazioni settoriali e indica la presenza di fattori sistemici che deprimono la capacità di crescita dell'intero tessuto economico.

I MACIGNI MACROECONOMICI

Il primo ostacolo è il cuneo fiscale, che nel 2024 ha raggiunto il 47,1% del costo del lavoro, posizionando l'Italia al quarto posto tra i 38 Paesi Ocse. Di questi, ben 24 punti percentuali sono costituiti da contributi a carico del datore di lavoro, quasi il doppio della media OCSE. Questa struttura rende il lavoro costoso per le imprese e poco remunerativo per i lavoratori, generando un doppio effetto negativo.

A questo si aggiunge una sperequazione fiscale che penalizza sistematicamente lavoro e produzione: mentre i redditi da lavoro sono soggetti ad aliquota progressiva fino al 43%, i redditi da capitale sono tassati con un'aliquota sostitutiva del 26%. Questa architettura fiscale altera l'allocazione delle risorse, favorendo l'investimento finanziario a breve termine rispetto all'investimento in capitale di rischio e capitale umano.

La rigidità della spesa pubblica costituisce il secondo macigno. La spesa per pensioni rappresenta il 16,3% del PIL, la seconda più alta nell'UE dopo la Grecia, contro una media europea del 12,9%. Questo differenziale costa al sistema-Paese circa 80-100 miliardi di euro all'anno che vengono sottratti ad altri impieghi. Una parte significativa di questa spesa è costituita da prestazioni assistenziali impropriamente aggregate alla spesa previdenziale, rendendo impossibile il dibattito confuso e le riforme.

Il sotto-investimento in istruzione completa il quadro: l'Italia spende il 3,9% del PIL contro una media europea del 4,7%, con un differenziale che equivale a circa 16 miliardi di euro l'anno di minori investimenti in capitale umano. Particolarmente grave è il sottofinanziamento della formazione tecnica superiore e dell'istruzione terziaria, cruciali per la capacità innovativa delle imprese.

I FRENI MACROECONOMICI

Ai vincoli macroeconomici si sommano i fattori che contribuiscono al livello di singola impresa. La struttura produttiva italiana è caratterizzata da una forte presenza di microimprese (95% con meno di 10 dipendenti) e da un'insufficienza di imprese medie e medio-grandi capacità di guidare filiere integrate. Il problema non è la presenza di piccole imprese, ma l'assenza di capofiliera che possano trasferire competitività a tutta la catena del valore. Il sistema fiscale e normativo contiene numerose soglie dimensionali che creano discontinuità e disincentivano la crescita.

Il deficit di competenze manageriali penalizza molte PMI gestite con modelli familiari non professionalizzati. L'imprenditore-fondatore concentra su di sé tutte le funzioni aziendali senza delegare un manager specializzato, creando un collo di bottiglia che frena la crescita. A questo si aggiunge la sottocapitalizzazione cronica, che rende le imprese fragili agli shock e limita la loro capacità di investimento.

I CIRCOLI VIZIOSI

Questi fattori non lavorano in modo isolato ma si alimentano reciprocamente. L'alto cuneo fiscale comprime i salari netti, rendendo l'Italia poco attrattiva per i talenti. Le imprese faticano a trovare competenze per innovare. Senza innovazione la produttività non cresce. Senza crescita non si possono pagare salari più alti. Il circolo si chiude.

LA RISPOSTA INADEGUATA

La Legge di Bilancio 2026, analizzata nel documento, si configura come una manovra di gestione congiunturale che non affronta i nodi strutturali. Delle criticità identificate, solo dieci (incentivi agli investimenti) ricevono una risposta positiva, mentre i restanti non sono affrontati. Manca una riforma strutturale del sistema fiscale, una razionalizzazione della spesa pensionistica, un investimento significativo in istruzione, una riforma della PA e della giustizia, strumenti per la crescita dimensionale e la trasmissione d'impresa.

Sbloccare il potenziale delle imprese italiane richiede riforme strutturali coordinate: riequilibrare il prelievo fiscale tra lavoro e rendite, riallocare la spesa pubblica verso investimenti strategici, semplificare il contesto normativo, favorire la crescita dimensionale. Sono riforme difficili, ma le uniche in grado di ripristinare all'Italia una traiettoria di crescita sostenibile.

CONSLTA IL PAPER DEL CENTRO STUDI IMPRESE TERRITORIO

Il peso del sistema

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Aggiornato a novembre 2025

Come i vincoli strutturali del Paese frenano la crescita delle imprese italiane


Le imprese italiane lavorano in un contesto-Paese che ne frena sistematicamente la capacità di crescita e di creazione di valore. Negli ultimi venticinque anni l'Italia ha registrato una crescita della produttività del lavoro di appena il 2,5%, contro il 9,7% della Francia, il 16% della Germania, il 18% della Spagna e il 19,6% della media dell'Unione europea. Questo divario non dipende dalla capacità imprenditoriale, ma da vincoli strutturali che contribuiscono a livello macroeconomico e microeconomico.

A livello macroeconomico, l'alto cuneo fiscale (47,1% del costo del lavoro) comprime i salari e disincentiva gli investimenti in capitale umano; la rigidità della spesa pubblica, con una spesa per pensioni pari al 16,3% del PIL, sottrae risorse agli investimenti strategici; il sotto-investimento in istruzione (3,9% del PIL contro il 4,7% della media europea) limita la disponibilità di competenze; l'inefficienza della PA e della giustizia agisce come una tassa occulta sulle imprese.

A livello microeconomico si sommano fattori che lavorano sulla singola impresa: l'insufficienza di imprese capofiliera in grado di guidare filiere integrate, il deficit di competenze manageriali, la sottocapitalizzazione, il ritardo nella digitalizzazione, la difficoltà nei passaggi generazionali. Questi fattori si alimentano reciprocamente, generando circoli viziosi che bloccano la crescita.

Il documento analizza la Legge di Bilancio 2026 alla luce di questa diagnosi, evidenziando che la manovra, pur con alcuni interventi positivi sugli incentivi agli investimenti, non affronta le cause strutturali della stagnazione. Viene quindi proposta un'agenda di riforme coordinate che comprende la riforma del sistema fiscale, la riallocazione della spesa pubblica, la semplificazione normativa, una politica industriale per la crescita dimensionale e investimenti massicci in capitale umano.