Il ritorno dei distretti: perché le imprese tornano a investire nel territorio/1
La globalizzazione non ha cancellato i distretti. Li ha trasformati. Oggi tornano al centro delle strategie d’impresa come ecosistemi aperti, capaci di integrare competenze, filiere e innovazione. Dalla Beauty Valley ai contratti di rete, ecco come il legame tra impresa e territorio può diventare un vantaggio competitivo
Dalle filiere corte alle reti lunghe, dalle competenze locali ai modelli di cooperazione avanzata. Abbiamo avviato un percorso di riflessione sulle nuove geografie produttive: quelle che nascono dal basso, ma sanno guardare lontano.
Tutto è cominciato con l’analisi di Mauro Colombo, direttore generale di Confartigianato Varese: “Filiere corte e territorio: la resilienza che nasce dal basso”. Un invito a rileggere il rapporto tra impresa e territorio non come limite, ma come leva strategica per innovare, attrarre, crescere.
Oggi apriamo il primo degli approfondimenti tematici con un contributo di Annarita Cacciamani, che raccoglie e rilancia i segnali di un ritorno potente (e silenzioso) dei distretti industriali: reti di senso e di impresa, che chiedono di essere comprese, potenziate, raccontate.

Il legame tra impresa e territorio sta tornando al centro delle strategie competitive. Non è una regressione localista, ma una risposta pragmatica a nuove esigenze di resilienza, specializzazione e collaborazione.
«Il distretto industriale non è mai morto. Semplicemente, aveva perso appeal agli occhi della narrazione economica dominante», spiega la professoressa Roberta Sebastiani, ordinaria di Economia e Gestione delle imprese all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. «Con la globalizzazione e l'esternalizzazione produttiva, sembrava che tutto dovesse delocalizzarsi. E invece, i distretti sono vivi, attivi, e in alcuni casi si stanno reinventando con forza».
Distretti 2.0: ritorno alle radici, con lo sguardo avanti
«Già nella metà dell’Ottocento Alfred Marshall parlava dell’importanza della concentrazione produttiva sul territorio. E negli anni ’70 Becattini ha ridefinito questo concetto con la teoria dei distretti industriali. Oggi non dobbiamo più vederli come sistemi chiusi, ma come reti dinamiche, interconnesse, capaci di valorizzare competenze, linguaggi e conoscenze sedimentate nel tempo» evidenzia la docente.
Perché il territorio può fare la differenza?
- Contiene asset tangibili e intangibili non replicabili altrove.
- È popolato da persone che conoscono tacitamente processi produttivi, linguaggi settoriali e dinamiche locali.
- È fertile per la contaminazione e la cooperazione tra attori diversi.
Fare rete: l’arma segreta (poco utilizzata)
Uno degli strumenti più potenti, ma sottovalutati, per valorizzare il legame con il territorio è il fare rete.
«Esistono i contratti di rete, ma sono ancora poco usati. Eppure, possono normare e rafforzare le collaborazioni tra imprese, dando loro una struttura più solida. Il vero ostacolo è culturale: in Italia c’è ancora una certa resistenza a collaborare, a fare squadra» sottolinea Sebastiani
Eppure, alcuni territori hanno fatto della cooperazione un tratto distintivo. L’Emilia-Romagna, ad esempio, è considerata un modello: «C’è una cultura dell’associazionismo molto radicata. Basta guardare all’alimentare, alla meccanica, ma anche al divertimento. Il piccolo diventa grande facendo rete».
Al contrario, in altre zone d’Italia «resiste una forte frammentazione e una certa chiusura. Serve un cambio di mentalità, e serve che arrivi dal basso».
La forza delle filiere e il caso Beauty Valley
Un esempio virtuoso? La Beauty Valley, un distretto recente nato dalla riconversione di aree chimiche nel nord Italia, tra Milano, Bergamo, Crema e la Brianza.
«La Beauty Valley dimostra che i distretti non sono fenomeni del passato. Qui aziende di nicchia convivono con grandi player globali in una logica di filiera: ciascuno presidia un segmento diverso, senza entrare in competizione. La forza del sistema sta proprio nella sua capacità di integrare specializzazioni diverse» evidenza ancora la professoressa.
In cosa funziona la Beauty Valley?
- Riconversione produttiva intelligente.
- Specializzazione elevata delle imprese locali.
- Collaborazione tra Pmi e multinazionali.
Innovazione non è (solo) tecnologia
Per Sebastiani, parlare di innovazione non significa inseguire brevetti o miracoli hi-tech: «Abbiamo banche piene di brevetti inutilizzati. Innovare significa guardare con occhi nuovi, contaminarsi con altri settori, creare connessioni. Il problema è che spesso le imprese si richiudono su sé stesse, mentre dovrebbero mantenere lo sguardo aperto».
La prossimità spaziale, continua, è ancora oggi un valore aggiunto: «Un tempo ci si incontrava al bar, oggi ci sono gli spazi di co-working. Ma il concetto è lo stesso: la rete nasce dall’interazione, formale o informale, tra attori diversi».
La rete è più della somma delle imprese
«Quando parlo di rete, non intendo solo imprese che collaborano», puntualizza Sebastiani. «Intendo una trama sistemica fatta di aziende, enti pubblici, organizzazioni non profit. Un ecosistema dove la piccola impresa non scompare, ma anzi diventa laboratorio di competenze e innovazione sociale».
Anche i piccoli possono – e devono – fare la loro parte, per esempio:
- Partecipando a bandi insieme.
- Collaborando con realtà più grandi.
- Interagendo con settori diversi, anche apparentemente lontani.
Comunicare il territorio: esplicito o implicito?
Comunicare il legame con il territorio è fondamentale. E lo si può fare in modi diversi:
- In modo esplicito: con certificazioni, denominazioni d’origine, etichette che parlano.
- In modo implicito: con packaging, estetiche e design che riflettono lo stile e i valori locali.
«Nel mondo della cosmetica, ad esempio, il packaging e il design raccontano tanto del legame con la moda e il lifestyle italiano. Non serve dire tutto: certe cose si colgono al primo sguardo» afferma.
Competenze, la vera sfida
Il vero tallone d’Achille, oggi, è la mancanza di competenze.
«Abbiamo bisogno di nuove risorse umane formate. Gli ITS sono un ottimo strumento per creare professionalità intermedie. Ma serve fare rete anche tra università e impresa, tra scuola e mondo del lavoro»
E il ruolo delle istituzioni? Per Sebastiani «dovrebbero diventare piattaforme abilitanti: stimolare la nascita di reti, premiare la collaborazione, riconoscere chi crea valore e non solo chi cresce di fatturato».
Restare piccoli, pensare in grande
Il modello produttivo italiano ha una grande carta da giocare: la flessibilità delle Pmi.
«Non dobbiamo imitare i modelli industriali di altri Paesi. La nostra forza è nel piccolo, nel fatto a mano, nel saperci adattare. Ma oggi serve farlo insieme. Restare piccoli, ma pensare in grande» conclude la professoressa Sebastiani. Annarita Cacciamani (1. Continua)
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