Imprese "zombie": un problema per le casse e un "buco" per i fornitori

Spesso si tengono in vita attività che dovrebbero cambiare e riconvertirsi: «Una sopravvivenza – dice Giampiero Castano – che non ha alcun beneficio per i fornitori (spesso Pmi…), che devono trovare soluzioni per rimettersi in sesto per conto loro»

«Imprese zombie? Mario Draghi ha ragione: non tutte le aziende in crisi vanno salvate». A dirlo è uno che di imprese in difficoltà se ne intende: il varesino Giampietro Castano, già capo dell’unità di gestione delle vertenze al Mise (ministero dello sviluppo economico) tra il 2008 e il 2019, sotto diversi ministri, da Scajola a Passera e Calenda. Lo chiamavano l’uomo dei “130 tavoli” perché erano tanti i tavoli di crisi industriali che gestiva mediamente in contemporanea.

«Sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche - le parole del premier Draghi appena insediato a palazzo Chigi - alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi».

La scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il compito della politica economica

Un concetto che Giampietro Castano condivide in pieno. «Vale sia per le grandi imprese sia per le piccole e medie - afferma “Mister 130 tavoli” - Poi si sa, le grandi hanno maggiore attenzione. Pensiamo ad Alitalia, che ha prosciugato miliardi di euro dalle casse pubbliche, tra cassa integrazione, finanziamenti, coperture delle perdite, così come tante aziende che si trascinano da tempo da una procedura all’altra, attenzionate da imprenditori più o meno improvvisati. Spesso in questi casi si tengono in piedi simulacri di impresa per tutelare centinaia di lavoratori. Ma è una soluzione che lascia molte perplessità, dato che in certe realtà il sussidio della cassa integrazione, pur essendo insufficiente per sostentare una famiglia, diventa una sorta di “reddito garantito” a cui poi si affianca un altro reddito non dichiarato. Ho in mente aziende da 1000 dipendenti che dopo 10 anni di crisi ne avevano ancora 950. Non è credibile che non riescano a trovare un’altra collocazione».

Così le imprese “zombie” diventano un incubo soprattutto per le casse pubbliche, costrette a foraggiare per anni il mantenimento in vita di questi “scheletri”: «In questi casi - sostiene Castano - la soluzione migliore è prendere atto che non esiste più l’impresa, tutelare i lavoratori garantendo un reddito ma contemporaneamente attivando tutte le procedure necessarie per la ricerca di un nuovo lavoro, comprese formazione e riqualificazione professionale. Io credo che dopo tre anni di sussidio sia possibile trovare una collocazione ovunque in tutta Italia».

Poi c’è l’altra faccia, spesso nascosta, delle piccole e grandi crisi aziendali: l’indotto, fatto di fornitori e di terzisti, che rimangono puntualmente a bocca asciutta. «Sì, il fornitore nel frattempo ha dovuto arrangiarsi, mentre l’azienda in crisi vive questo falso tentativo di mantenerla in piedi – ammette l’ex direttore dell’unità vertenze del Mise – una “sopravvivenza” che però non ha alcun beneficio per i fornitori, che devono trovare soluzioni per rimettersi in sesto per conto loro».

E così l’impresa zombie è un “affare” che la collettività non si può permettere. «Se un’impresa non ha più un mercato, se non ha un management all’altezza e se ha un debito non più sostenibile, è un’impresa zombie – chiarisce Castano – a volte basta una sola di queste condizioni, ma di certo non si può dire che una società sia viva se non c’è un imprenditore disposto a guidarla. Quindi, di fatto, l’impresa non c’è più». E non dovrebbe essere salvata. Le soluzioni alternative che indica Castano, oltre alla riqualificazione del personale durante il periodo di cassa o di Naspi, portano sempre alla «ricerca di nuovi imprenditori in grado, in un arco di tempo breve, non tanto di surrogare quelli che hanno lasciato, ma di portare sul territorio nuove risorse economiche e nuove attività che consentano almeno ad una parte dei lavoratori di essere rioccupati. È il caso della reindustrializzazione, che ha avuto anche dei successi, come ad esempio la Whirlpool a Trento e a Caserta. Occorre però che ci siano strutture capaci di fare questo lavoro di ricerca di nuovi imprenditori e di messa a disposizione di strumenti adeguati».

Un tema di «politica industriale», in soldoni. In ogni caso, ammonisce l’esperto delle crisi industriali, «io non credo che gli imprenditori chiudano un’attività perché non sono capaci di portarla avanti, molto spesso è perché quell’attività non c’è più».

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