Adriano Olivetti definiva il lavoro, anche il più umile, come generatore di valore e fonte di identità per le persone. Dirà: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica». Ed è proprio partendo da un’attenzione particolare al miglioramento delle condizioni dei lavoratori, con idee di benessere, felicità e sviluppo delle potenzialità, che darà vita a un modello organizzativo innovativo che rese l’Olivetti un luogo dove tutti avrebbero desiderato lavorare.
Il lavoro contiene davvero la possibilità di essere coinvolti in qualcosa che abbia valore. Certo, oggi gli indicatori per valutare la qualità del lavoro non si esauriscono in questa domanda di senso ma vanno a toccare un complesso intreccio di fattori individuali, culturali, sociali ed economici, quali: salario e differenze retributive di genere, intensità e qualità del tempo di lavoro, ambiente fisico e contesto sociale, livelli di competenza e prospettive future.
La fotografia dell’ultimo Gallup State of Global Workplace Report rimanda a una situazione di malessere lavorativo, più seria in Italia che altrove in Europa. Il rapporto tra le persone e il lavoro sta vivendo un mutamento profondo: da luogo di realizzazione individuale e di relazioni sociali a luogo di disimpegno, stress e tristezza.
Cosa sta accadendo? «Le tendenze strutturali a partire dalla crisi del 2008, e in seguito rafforzate dalla fase pandemica, ci raccontano due grandi evidenze: una qualità del lavoro che nell'attività lavorativa si depaupera nel tempo e il deterioramento dei rapporti contrattuali e della retribuzione – spiega la professoressa Maria Enrica Virgillito, docente in Economia Politica all’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa – Parliamo, quindi, sia di condizioni formali rispetto all'inserimento contrattuale (di remunerazione e stabilità contrattuale), sia di processi di lavoro. Le cause del depauperamento delle condizioni di lavoro possono essere varie, tra cui l'assenza di rapporti di interlocuzione tra la parte datoriale e la parte subordinata a seguito della frammentazione delle relazioni di lavoro (favoriti tra l’altro da sistemi di appalti e subappalti anche all'interno della stessa unità d'azienda). Esiste inoltre un aspetto legato alla capacità sindacale non solo di organizzarsi ma di farsi interprete delle richieste rispetto alla qualità del lavoro. Possiamo affermare, dunque, uno stato di salute del “lavoro” ben lontano dall’ ottimale, a prescindere dai settori e dalle dimensioni delle imprese» prosegue.
«Le indagini statistiche svolte da European Jobs Monitor (EJM), un’organizzazione che studia i cambiamenti strutturali nei mercati del lavoro europei, mostrano una macro tendenza delle Pmi che faticano a implementare sistemi di gestione delle risorse umane tali da migliorare la qualità e la stabilità del lavoro. Da queste tendenze di comunanza è importante distinguere il caso di imprese più performanti dal punto di vista del mercato, della catena del valore e dell'attività produttiva, imprese caratterizzate da una dimensione d'impresa più ampia, a maggiore contenuto tecnologico, con spiccata propensione all’innovazione e alla relazione con l'estero, che spesso hanno forme di gestione delle risorse umane più strutturate».
In un mondo in piena trasformazione (demografica, geopolitica, economica, tecnologica), il paradigma “lavoro” sta mutando velocemente.
Complice l’esperienza collettiva della pandemia, è andata plasmandosi una nuova consapevolezza che porta con sé delle conseguenze. In primis una ricerca di senso che sta mettendo in discussione il principio stesso del lavoro, soprattutto per il diffondersi di occupazioni che includono ampi margini di attività ridondanti, burocratizzate e a scarso valore aggiunto.
Va da sé che la percezione che i lavoratori hanno dell’utilità del proprio lavoro influenza (e non poco) la motivazione e quindi la produttività. Ma cosa rende un lavoro un “buon lavoro”? Alla fine, è questa la domanda che sottende un’analisi complessa e multiforme.
«Il risultato del rapporto Gallup di nuovo inquadra un distacco dal concetto di lavoro come forma di appagamento e partecipazione alla vita complessiva, di ragion d’essere e costruzione di identità. Di nuovo, anche qui si tratta di un dato a livello europeo che stima la soddisfazione lavorativa a un livello basso, tra il 14 e il 15 per cento – precisa Virgillito – Perché questo succede? Alcune ragioni le abbiamo ribadite prima, tuttavia esiste anche un problema legato al “cosa si fa” e alla “standardizzazione” e proceduralizzazione dei processi di lavoro a seguito della digitalizzazione. Processi di lavoro sia materiali che immateriali, dalle fabbriche agli uffici di consulenza, che vengono fortemente proceduralizzati attraverso la gestione di software e sistemi digitali che contribuiscono alla standardizzazione degli output di lavoro e alla riduzione del contributo individuale, valoriale, creazionale che il soggetto può avere. È un aspetto, questo, che meriterebbe maggiore attenzione: la componente datoriale va educata a comprendere che il lavoro non è solo un costo ma creazione di valore».
«L’Italia è deficitaria di una cultura datoriale che valorizzi l'attività lavorativa; il lavoro è considerato più nell’aspetto del costo e meno dei diritti ad esso connessi. Il lavoro deve essere sollecitato, trasformato e cambiato dal punto di vista cognitivo (la conoscenza si deve poter creare) e per fare ciò servono meccanismi di apprendimento e di trasferimento di conoscenza che non possono limitarsi a corsi di formazione; occorrono momenti di studio, apprendimento e crescita del personale finalizzati a obiettivi comuni».
La centralità degli investimenti immateriali in cultura e formazione è essenziale per avere prestazioni di lavoro di alta qualità. Attrarre, sviluppare e trattenere persone di valore e ad alto potenziale è una spinta creativa e una determinante strategica della performance delle imprese. «È fondamentale far capire il “perché” del lavoro che si svolge: la gerarchizzazione degli ordini, ovvero eseguire unicamente le direttive di qualcun altro, non motiva – puntualizza – È necessario poi saper rispondere anche in termini formali alla necessità di organizzare il tempo di lavoro (considerando le diverse esigenze tra la componente femminile e quella maschile) e di modulare il carico di lavoro durante l'attività settimanale, dando la possibilità di ridurre il carico di lavoro in procinto del fine settimana; anche gli schemi di rotazione sono sperimentazioni che tendono a migliorare la soddisfazione e, quindi, anche la produttività del lavoro».
La rivoluzione che l’avvento dell’Intelligenza Artificiale (AI) sta portando nel mondo del lavoro apre a nuove sfide e prospettive delle dinamiche aziendali. Questo cambiamento non modifica solo compiti e responsabilità ma introduce anche nuove modalità di interazione tra uomo e macchine sempre più complesse, con nuovi equilibri da gestire. Al centro delle preoccupazioni ritorna questo ideale di felicità collettiva, grazie alla quale le persone sono messe nelle condizioni di lavorare meglio.
«Riferendomi a una evoluzione tecnologica pre intelligenza artificiale, fino a oggi la tecnologia si è inserita in due modi nell’organizzazione del lavoro: il primo è quello già accennato della standardizzazione dei processi di lavoro, sia nel lavoro dei servizi che nel lavoro di fabbrica. La standardizzazione digitale ha un effetto duale, da una parte sfavorisce la partecipazione e riduce il portato individuale, dall'altra alleggerisce la responsabilità di azioni demandate alla tecnologia – commenta Virgillito – Con l'arrivo dell'intelligenza artificiale l’influenza della tecnologia nei processi di lavoro diventa ulteriormente più pervasiva. Per esempio, l'intelligenza artificiale può essere utilizzata per coadiuvare (e non sostituire) alcune attività che l'umano non riesce a svolgere, come il riconoscimento della qualità di un prodotto molto sofisticato (l'image recognition permette di identificare errori visivi in una modalità più precisa e dettagliata dell'occhio umano)».
«Esistono tuttavia altre forme di applicazione dell’AI che stanno trasformando la natura e le relazioni di lavoro in quanto si possono demandare all’algoritmo di intelligenza artificiale funzioni e prerogative dell’umano, tali da far assumere alla scelta automatizzata processi decisionali di varia natura, per esempio nelle pratiche di assunzione con il profilamento dei curricula e individuazione di soggetti più o meno confacenti all'attività di lavoro, arrivando anche a forme pervasive di controllo biometrico per calcolare indicatori di performance come la quantità di minuti impiegati per chiudere una conversazione o esaminare la variazione del tono di voce. Con la sovraesposizione a questi strumenti tecnologici aumenta il rischio di tecnostress legato all’uso pervasivo delle tecnologie e al loro impatto a livello psicologico. Sono aspetti negativi, questi, inerenti a questioni etiche e procedurali che attendono una regolamentazione chiara e il cui impatto potrebbe essere a ulteriore detrimento della qualità del lavoro». Paola Mattavelli