Il buon lavoro: perché oggi conta stare bene in azienda
Del tema del buon lavoro si è occupato Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager e Trenitalia, nel saggio “Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane”. «Le Grandi dimissioni, il quiet quitting, il job hopping ci fanno comprendere un messaggio chiaro: sul benessere delle persone non si negozia. Non più»
Cos’è oggi il buon lavoro? Quello che propone uno stipendio elevato? Quello che consente importanti avanzamenti di carriera o una posizione sociale riconosciuta? O forse è altro? Un’attività che permette di conciliare vita professionale e sfera privata, un impiego che si coniughi con le proprie esigenze e aspirazioni, un impegno che sappia riconoscere l’importanza di temi sempre più attuali come benessere mentale, sostenibilità e crescita personale. Di tutto questo si è occupato Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager, CIDA e Trenitalia, nel saggio «Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane» (ed. Luiss), scritto insieme alla giornalista Manuela Perrone.
Dottor Cuzzilla, perché parlare di buon lavoro adesso?
Perché le crisi attraversate in questi anni, a partire dal durissimo biennio pandemico, hanno rimesso profondamente in discussione i cardini delle nostre vite. E tra questi c’è certamente il lavoro che oggi, per essere vissuto come uno degli spazi di realizzazione delle persone, deve trovare il giusto equilibrio con la vita privata. Ridare senso al lavoro è la grande sfida della nostra epoca.
Un tempo si guardava lo stipendio, magari il livello e qualche benefit. Cosa si cerca invece oggi nel lavoro?
Innanzitutto, di star bene, nell’accezione più ampia. Mi riferisco alle tre dimensioni del benessere che oggi rappresentano un obiettivo primario: fisico, mentale e sociale. Il vocabolario del lavoro si compone di parole nuove come flessibilità, agilità, antifragilità e conciliazione vita/lavoro.
Grandi dimissioni, quiet quitting: se ne parla molto spesso. La pandemia ha accelerato un processo che era già in atto? Cosa possono fare le aziende per rispondere a questo “grande disallineamento”?
La pandemia ha rappresentato certamente un fattore di accelerazione. Ma attenzione, il disallineamento tra ciò che le organizzazioni offrono e ciò che i lavoratori cercano viene da lontano, non è un prodotto dell’oggi. Viene da anni in cui le persone sono state sempre più sacrificate sull’altare di “valori altri”. Fenomeni come le Grandi dimissioni, il quiet quitting, il job hopping ci fanno comprendere un messaggio chiaro: sul benessere delle persone non si negozia. Non più.
Quali sono quindi le strategie di successo e i principi chiave che un imprenditore deve tenere a mente affinché si stia bene in azienda?
Il punto di partenza è chiaro: stabilire un solido rapporto di fiducia tra persona e azienda. Un rapporto che non ingabbi il talento, ma lo faccia esprimere pienamente. Le nuove strategie del lavoro si fondano sull’ascolto dei dipendenti e su modelli di leadership che sappiano fare sentire i collaboratori coinvolti nel percorso professionale intrapreso. Essere consapevoli del livello di engagement dei lavoratori diventa decisivo.
Come si può agire per migliorare le relazioni aziendali?
Mi piace evidenziare la visione di una leadership orientata al coaching per migliorare le relazioni aziendali. È molto suggestiva l’immagine del dirigente-coach come “cercatore di bellezza”, cioè colui che sappia valorizzare l’unicità, l’eccellenza, il talento specifico del singolo senza pretendere di “aggiustare” le persone, omologandole. Si tratta di saper cambiare prospettiva.
Qual è la correlazione tra benessere aziendale e produttività?
Diverse rilevazioni lo dimostrano ed è per questo che molte aziende, di tutte le dimensioni, stanno già oggi investendo parecchio in un welfare aziendale finalizzato a migliorare l’equilibrio dell’ecosistema lavorativo. Le imprese con un welfare più evoluto ottengono performance di produttività superiori e crescono, nei risultati economici e nei livelli di occupazione. Riporto un dato illuminante: quasi il 56% dei manager iscritti a Federmanager è oggi alle prese con la definizione di strategie appositamente concepite per elevare il benessere dei lavoratori, il che la dice lunga su quanto le imprese siano consapevoli dell’importanza della questione.
L’Italia è una nazione di Pmi: il buon lavoro può partire da loro?
Deve partire anche da loro, se vogliamo provare a essere davvero tra i Paesi del buon lavoro. La ridotta dimensione può trasformarsi in un vantaggio perché le politiche organizzative sono più agili e possono sperimentare di più in tempi più brevi. Però bisogna innovare, non limitarsi a conservare ciò che funziona perché nulla oggi funziona a lungo. Perché rimanere piccoli per sempre non è bello e, aggiungerei, non è buono. Ecco perché io insisto sulla necessità delle Pmi di dotarsi di manager. Servono competenze per vincere le sfide della modernità e rimanere competitivi anche rispetto alla concorrenza internazionale. Bisogna avere più coraggio e aprirsi a un management di qualità, anche esterno alla compagine familiare che spesso coincide con la proprietà.
L’attenzione all’ambiente, alla sostenibilità, al mondo che ci circonda assumono sempre più rilevanza. Sono anch’essi una leva per misurare il buon lavoro?
Assolutamente sì, come dimostra l’impegno oramai diffuso delle aziende sul tema della sostenibilità ambientale. Argomento che rappresenta, peraltro, un potente elemento di attrazione per i talenti che, in sede di valutazione dell’azienda in cui lavorare, esaminano anche la reputation che questa abbia maturato in relazione alla sostenibilità, al rispetto dei criteri ESG e a parametri come quello dell’efficienza energetica. I talenti vogliono lavorare in aziende to be proud of, di cui essere cioè orgogliosi.
Chief Happiness Officer, un manager della felicità: utopia o realtà?
Parlare di felicità in azienda non è più un tabù, né una provocazione. Figure come il CHO iniziano a prendere legittimità perché costruiscono un ponte tra persone, pratiche e conoscenze: il compito è quello di far star bene tutti gli attori che operano in azienda affinché possano trasformarsi in testimoni di comportamenti nuovi.
Per concludere, come si può definire il buon lavoro in tre aggettivi?
Agile, responsabile e orientato al benessere. Caterina Chiara Carpanè