Migliorare la produttività? Certo che si può, anche se l'impresa sorge in un Paese “particolare” come l’Italia, soffocato da burocrazia, leggi capziose e dai tanti altri problemi di ogni tipo che tutti conoscono. Il professor Claudio Rorato, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle Pmi del Politecnico di Milano, ne ha parlato in occasione dell’ultimo item firmato Confartigianato Imprese e Territorio.
«La produttività oraria del lavoro in Italia – è la premessa – ha segnato un +3% nel periodo 2000-2019, registrando performance ben lontane dai benchmark europei (in Germania nello stesso periodo +20%, in Francia +19% e in Spagna +17%). Il manifatturiero (16,1% del valore aggiunto italiano nel 2020) ha registrato una continua crescita della produttività dal 2010 al 2017 per poi stabilizzarsi nell’ultimo triennio e cumulativamente segnare +24% dal 2000 al 2019 (vs +38% Germania, +49% Spagna e +56% Francia). Questi dati devono farci riflettere per capire le ragioni della scarsa produttività delle imprese italiane: da dove nasce il problema?». I dati non mentono, e le performance delle nostre aziende non reggono quelle delle altre Nazioni che trainano il continente.
«A livello di sistema Paese – esordisce il professor Rorato –ci collochiamo (le fonti sono di Ameco, il database della Comunità Europea) con circa 42 euro di produttività oraria. In Germania sono 59, in Francia 58 e in Spagna 37: meno, ma stanno risalendo la china e probabilmente ci supereranno. La scarsa produttività oraria si compensa facendo lavorare di più le persone: quindi gli italiani lavorano di più, 1668 ore all’anno di media contro le 1349 in Germania. Infine, il nostro progresso tecnico può essere migliorabile ancora, soprattutto visto il gap».
E visto che l’Italia è tradizionalmente “la nazione delle Pmi”, in che modo queste ultime possono trainare l’economia? «In alcuni comparti – prosegue l’esperto – c'è un'elevatissima concentrazione di microimprese come nella moda, nell’arredo, nell’agro-alimentare. Si tenga conto che le grandi imprese non condizionano positivamente l'intera filiera. Sono attente a recuperare efficienza al loro interno, non a scaricarne fuori. In Italia la cultura sistemica è ancora in fieri, non è propria del nostro sistema Paese, quindi spesso e volentieri ci troviamo ad affrontare delle frange territoriali che possono essere solo parzialmente efficienti».
Quello che serve è un concetto chiave: “semplificare”, e farlo presto. Claudio Rorato, brillantissimo: «Le imprese subiscono le normative. Il processo in oggetto è in mano alla classe politica: noi parliamo da anni di dover semplificare, di sfrondare le leggi, di renderle meno farraginose. Se in un’azienda i reparti amministrativi sono più numerosi dei commerciali, c'è qualcosa che non va. Quando vediamo i commercialisti che corrono dietro alle normative perché è difficile stare dietro, in Italia, alla velocità con cui vengono fuori questi aggiornamenti normativi, ci accorgiamo di quanto tutto sia complesso. Compariamo gli studi professionali italiani con quelli spagnoli e francesi: i nostri sono mediamente più attrezzati tecnologicamente, ma la dimensione media e la produttività è più alta lì. Noi paghiamo un fardello di appesantimento normativo». Paghiamo un bizantinismo della burocrazia, la giustizia lenta, le normative instabili.
Il professor Rorato, prima di dare consigli, presenta anche un esempio che fa capire quanto l’adeguamento tecnologico non sia ancora così semplice per tutti. «Un imprenditore esulta, perché ha usufruito di finanziamenti per ammodernare la sua fabbrica. In realtà è tutto congelato nell'utilizzo delle tecnologie perché nessuno lì è in grado di farle funzionare. Significa: la tecnologia è fondamentale e se non sei aggiornato ti autoemargini. Serve la bellissima macchina, ma il pilota che sappia guidarla, ancora di più. Altrimenti hai impiegato dei soldi che risultano improduttivi. Servono competenze (saper fare) e capacità digitali».
Nelle aziende più piccole c'è spesso “l'uomo solo al comando”, croce e delizia, che decide a seconda della sua lungimiranza e a volte anche della sua età. Le ditte un po’ più grosse vantano una managerialità diffusa e possono elaborare visioni più articolate.
Secondo l’esperto del Politecnico, l'ecosistema dovrebbe essere più proattivo. Oggi abbiamo imprenditori molto “tecnici” ma carenti nella gestione. L'ecosistema deve compensarli, e creare anche nuovi approcci. Sì, ma come? «Sviluppare la capacità di visione della parte apicale, manageriale. Loro elaborano gli indirizzi di sviluppo dell'azienda e ne attuano le politiche. Instillare nelle persone affezione nei confronti della tecnologia facendogliela percepire come un alleato e non come un nemico che sottrae lavoro. Come qualcosa a cui abituarsi nel tempo perché genera valore».
Inoltre è difficile trovare materiale umano. I diplomati nelle scuole di settore sono pochi, e spesso (se bravi) già opzionati. Anche qui, il divario con le altre nazioni è impietoso. In Italia ci sono il doppio di laureati in discipline umanistiche e di scienze sociali rispetto ai settori tecnici. In Germania il dato è inverso. Ma l’Italia, anziché sfruttare queste menti intellettuali nel campo turistico, semplicemente non offre niente per loro.
«Nel concreto, le strategie che suggerisco – prosegue il professor Rorato – riguardano un confronto sempre più costante tra aziende. Di sviluppare cultura sistemica, di filiera, coi fornitori. Perfino la cyber security può diventare una leva di marketing, anche se è un argomento tecnico. il concetto di cyber security è molto legato alla collaborazione. In generale, quando io sono virtuoso dentro di me, e ognuno lo è verso di sé, la filiera ne beneficia. Il concetto è quello della falange spartana». Teniamo la nostra mente aperta, sviluppiamo la capacità di fare sistema, non chiudiamoci dentro la solitudine del capannone. Facciamo capire a tutti gli imprenditori che serve l'investimento tecnologico.