Nella recente “Indagine per i bisogni degli under 35”, le parole d’ordine che meglio tratteggiano il profilo dei millennials in azienda sono “stare bene dentro e fuori” il luogo di lavoro. In riferimento al tema del welfare aziendale, la traduzione è semplice: meno servizi “classici” e più tempo per sé. Per crescere professionalmente e culturalmente, per poter far crescere la propria casa e liberare tempo da dedicare alla famiglia, per poter assaporare il bello della vita.
Una tendenza che conferma appieno quanto già abbiamo detto nella prima delle tre puntate dedicate a una rivoluzione culturale destinata a cambiare le imprese: il welfare aziendale è un investimento dell’imprenditore in benessere, per sé, per la propria attività e per i dipendenti. Lo sanno soprattutto i giovani, cresciuti a pane e conoscenza delle potenzialità del welfare.
Per loro, le offerte classiche spesso non bastano. Occorre guardare oltre il buono spesa (che, pure, la sua importanza ce l’ha), e agganciare servizi in grado di dare valore al tempo libero e alla persona.
UN BENESSERE INTESO A 360 GRADI
In una intervista a Business People, il docente di Sistemi di welfare comparati Luca Pesenti conferma: «I piani di welfare aziendale si stanno spostando verso il benessere ampiamente inteso, comprendendo convenzioni con palestre agenzie di viaggio, shopping e altro angora».
Una esigenza se possibile anche più sentita nelle stagioni più calde dell’anno, la primavera e l’estate, quando il bisogno di rimettersi in forma diventa fisico e psicologico, così come il desiderio di viaggiare, sperimentare e, perché no?, mettersi alla prova. Ecco dunque che nel panel delle offerte presenti in piattaforma gli imprenditori interessati a coltivare il cosiddetto “well being”, un benessere a 360 gradi, non possono prescindere da servizi dedicati al tempo libero (viaggi, cinema, teatri, mostre, abbonamenti in palestra, ingressi in centri benessere, corsi ricreativi o culturali, vacanze organizzate) ma anche da quelli orientati a migliorare le performance delle persone.
UNA RISPOSTA ALL'INVECCHIAMENTO DELLE COMPETENZE
In un periodo in cui l’obsolescenza delle competenze rischia di iniziare un anno dopo averle acquisite – specie nei settori a più alta connotazione tecnologica – sostenere le carriere dei propri collaboratori con corsi professionalizzati può voler dire investire due volte: sulla persona e, di riflesso, sull'azienda. Garantendo al dipendente, sempre e comunque, il massimo grado di conoscenza nel proprio campo o in campi affini e meno conosciuti.
Tra l’altro, l’invecchiamento precoce delle competenze costa carissimo agli imprenditori ed è sempre più diffuso. Stando a uno studio del Centro Europeo per la Formazione Professionale, il fenomeno riguarda il 31% dei lavoratori di età compresa tra i 50 e i 55 anni, con percentuali che vanno dal 23% in Finlandia al 32% in Ungheria, mentre scende al 21% per le persone di età compresa tra i 30 e i 39 anni. Quindi, assecondare un bisogno di formazione significa anche incentivarlo.
Certo sul tema c’è da lavorare: si pensi che solo il 17% degli occupati sa esattamente cosa significhi welfare aziendale, e quali potenzialità abbia in pancia. Il 58,5% ne conosce solo le linee di principio e il 23,6% addirittura non lo conosce. Si potrebbe parlare di opportunità perse per tutti, i dipendenti e i datori di lavoro.
GUADAGNO ANCHE INDIRETTO
Quando la conoscenza è bassa, ad andarci di mezzo è inoltre territorio: il welfare, di fatti, esce dall'azienda insieme al dipendente ed entra nel tessuto sociale, moltiplicando le opportunità di benessere e, in molti casi, sostenendo le imprese del territorio.
I servizi per la casa (manutenzioni e ristrutturazioni) sono l’esempio perfetto di come un’azienda che fa welfare, oltre a trarne benefici diretti, potrebbe acquisire benefici indiretti divenendo fornitore a chilometro zero di servizi per i dipendenti di altre imprese. In questa chiave grande rilevanza assume l’affidarsi a “piattaforme di prossimità”, ovvero costruite guardando al territorio come destinatario e fornitore.