Spacci aziendali: fine di un’illusione. Serve una vera strategia per vendere davvero
Il coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio Antonio Belloni smonta il mito dello spaccio aziendale e indica alle Pmi la strada per costruire una vendita diretta credibile, con brand, visione e sostenibilità economica
di Antonio Belloni *
Cosa vedevi dalla porta sul retro? Polvere e prodotti fuori catalogo, ma anche contanti e senso di libertà. Si respirava quest’aria nello spaccio aziendale su strada, dietro al capannone. Ed è un modo di fare impresa che sta perdendo le ragioni di esistere, così com’era fatto.
Ci ha dato ossigeno, certo, ma non futuro. Ma oggi pare impossibile non trovarci qualcosa da salvare, per tutti quei terzisti e subfornitori che cercano ancora marginalità ed autonomia, e son spinti dall’ambizione di diventare super-fornitori.
Merita dunque un bilancio, anche perché è stata un’esperienza diffusa e molto popolare.
UN UNIVERSO PARALLELO
I bollini rossi erano appiccicati malamente e la polvere era nascosta sotto a tavolati di compensato bianco, mentre gli scatoloni invecchiavano lentamente e le rumorose calcolatrici emettevano scontrini senza intestazione, ma con sconti quasi sempre a due cifre.
Lo spaccio aziendale era questo universo parallelo, un privé dell’impresa di famiglia.
Parallelo in senso letterale, perché viveva quasi sempre in simbiosi col capannone.
E da questa simbiosi, come un fungo regalava settimanalmente qualche bella soddisfazione, in forme più o meno sostanziose di fatturato extra.
Era proprio questo il primo vantaggio concreto di avere uno spaccio: dava una grossa boccata di fatturato e liquidità che salvava o altrettanto spesso rimpinguava imprese cronicamente affaticate da una finanza gestita molto, ma molto disordinatamente.
E non solo.
Spesso era una liquidità che finiva “in formato black” in famiglia, dentro a investimenti immobiliari e direttamente nel portafoglio di figli e parenti e oltre; ma è stato anche un doping utile a chi ha attraversato momenti difficili e si è ripreso, e di chi invece ha chiuso qualche tempo dopo.
IL SIGNIFICATO PROFONDO
Lo spaccio aziendale non esauriva però il suo significato nel contante circolante in una contabilità parallela e talvolta provvidenziale. Aveva un significato profondo e quasi antropologico: rappresentava la bancarella in piazza con cui si potevano vendere prodotti propri e realizzati per sé.
Dava un senso di libertà.
Era infatti l’unico modo con cui terzisti e subfornitori di settori più disparati – tantissimi nelle calzature e nell’abbigliamento, nell’arredo casa e nell’agroalimentare, ma anche in settori diversi della meccanica o di comparti impensabili – si liberavano dai vincoli di clienti grandi e rigidi per andare sul mercato.
Da soli.
Grazie allo spaccio, come un leone in gabbia l’impresa fornitrice tentava infatti, e spesso riusciva ad esprimere la sua libertà d’azione, la capacità di piegare un tubo senza romperlo, e di riempire quei buchi di creatività lasciati appunto da imprese troppo grandi per muoversi agilmente e con prodotti nuovi.
SOLO TATTICA
Ora però tantissimi di questi universi paralleli chiudono, per ragioni varie e diverse.
E magari lo fanno dopo venti o trenta o quarant’anni di attività più o meno indisturbata o tollerata.
Ma cosa lasciano sul terreno?
Quanti dei prodotti lanciati si sono affermati ed hanno occupato fette importanti di mercato?
Quanti sono diventati riconoscibili e memorabili, ed oggi danno marginalità importanti?
Quanti hanno vissuto di vita propria per poi staccarsi dall’impresa madre e crearne altre?
Quasi nessuno.
L’apertura dello spaccio come Piano B ed il lancio di prodotti destinati ad esso si è infatti rivelata quasi sempre e una tattica di brevissimo periodo. Un modo per sopravvivere o succhiare ricchezza all’azienda madre senza darle un contributo veramente utile alla sua prosperità e una spinta alla crescita.
COSA RESTA?
Il bilancio complessivo di molte iniziative come queste è infatti negativo: la ricchezza guadagnata non si è quasi mai trasformata in marginalità ordinariamente espressa e stabile. E la libertà desiderata non ha mai lasciato sul campo prodotti o servizi degni di uno sviluppo futuro.
La liquidità generata non era infatti il frutto di una gestione di flussi finanziari efficienti e nemmeno il risultato di margini accumulati con un’efficiente organizzazione produttiva. Così come i nuovi clienti catturati su strada non si sono mai consolidati, restando solo un mercato informale ed occasionale.
Per moltissime imprese piccole e medie, purtroppo, lo spaccio non è neppure stato un parco giochi dove fare il test di mercato ai prototipi dei prodotti più coraggiosi, o dove sondare periodicamente e con precisione i gusti nuovi e figuriamoci i bisogni più profondi dei clienti.
L’informalità delle iniziative di questo tipo non ha poi nemmeno portato a certificazioni o innovazioni sostanziali, e proprio per questo ha inibito investimenti commerciali e di comunicazione invece imprescindibili quando si mette sul mercato qualcosa di nuovo, in cui davvero si crede.
DAL B2B AL B2C
Dunque, cosa fare ora che il gioco si fa duro; ora che gli spazi d’azione dell’informalità sono giustamente azzerati da controlli, sanzioni e burocrazia ed i clienti trovano ampia scelta e prezzi competitivi in outlet più organizzati, su marketplace digitali efficienti e grandi distributori o aggregatori ben forniti?
Oggi val di certo la pena sondare l’efficacia di questi nuovi canali alternativi, ma è indispensabile abbandonare una tattica rapace, per abbracciare invece azioni ben più convinte e proiettate sempre nel lungo periodo, come alcune tra queste:
- i prodotti realizzati per aprirsi un varco dal B2B al B2C vanno sempre accompagnati da un nome;
- serve un marchio coerente con la propria impresa e le esigenze dei clienti target;
- un buon terreno di carotaggio per prodotti propri possono essere le fiere, anche estere;
- l’eCommerce è un buon canale, ma se proprietario richiede investimenti e gestione dedicata;
- la comunicazione e la certificazione devono accompagnare i prodotti ovunque;
- il sondaggio dei nuovi prodotti sui clienti diretti va sempre misurato, pesato ed analizzato;
- le quote di mercato raggiunte, anche piccole, vanno costantemente presidiate.
Serve dunque un cambio netto di mentalità.
Perché passare da pirati di ventura a colonizzatori di nuovi mari non è semplice.
Ma ora è indispensabile.
* Coordinatore Centro Studi Imprese Territorio