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Reputazione d'impresa, costruirla e mantenerla fa bene all'impresa

Reputazione d'impresa, costruirla e mantenerla fa bene all'impresa
brand reputation

«La reputazione d'impresa è un riflesso del comportamento virtuoso, e ci vuole tempo». Questo è il concetto base, ripetuto più volte (e quindi vero) dell’ultimo item targato Confartigianato Imprese e Territorio. Premessa: «Avere una buona brand reputation significa avere una marcia in più nei rapporti b2b e b2c: ma come costruire una buona reputazione di marca? E, soprattutto, come mantenerla nel tempo anche in un mercato agguerrito come quello dei social». Ospite Gabriele Carboni, esperto di marketing, brand reputation, digital marketing e corporate communication. Nonostante tutti questi termini in inglese, lo stesso Carboni ha voluto che il titolo fosse in italiano, “Le fondamenta della reputazione di marca”.

«Mi piace – ha esordito l’esperto – dividere i tempi della comunicazione d’azienda in due insiemi semplicistici. La parte commerciale, dove comunico in modo tale da ottenere contatti o vendite, e la comunicazione istituzionale tesa a mantenere una reputazione con tutti gli stakeholder. Il risultato è sempre ‘vendo o non vendo', ma nella comunicazione di marca i mattoncini li metti pian piano e l'esito lo ricevi sul lungo periodo. La comunicazione commerciale è una linea retta, quella istituzionale invece è esponenziale e pertanto la mente fa più fatica a leggerla. La Pmi deve fermarsi un secondo ragionando su chi è, su cosa vuole fare, su dove deve andare. Così, sempre paragonando tutto al Lego, metti insieme i mattoncini per creare la tua reputazione. Non è un processo immediato». Una reputazione che poi va mantenuta e consolidata nel tempo. Servono azioni concrete per testimoniare l'atteggiamento virtuoso, non basta soltanto esprimerlo a parole. Il cliente percepisce se la data azienda dice una cosa, ma ne fa un’altra, e lo scivolone è sempre dietro l’angolo.

MERCATO LOCALE E INTERNAZIONALE

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Ma fa differenza costruire una buona reputazione per chi opera nel B2B e per chi lavora nel B2C? Ed è più semplice costruire una reputazione di marca per una azienda che offre prodotti o per una azienda di servizi? Carboni: «Dal punto di vista della pratica, degli strumenti e dei budget a disposizione c’è grandissima differenza. Oggi il B2C viene spezzato in due: l'azienda più piccola che guarda a un consumatore in ambito locale e il B2M, business to mass, cioè chi comunica per le masse. C’è anche da sottolineare che la base identitaria dell'azienda B2B è percepita dal cliente. Per la Coca-Cola (ed è solo un esempio) è diverso, il consumatore beve semplicemente la lattina e non si fa nessun’altra domanda in merito».

L’approccio reputazionale di un’azienda deve per forza tenere anche conto della differenza tra mercato locale e internazionale. «A volte – così Carboni – non è neanche sufficiente saper parlare in inglese, né il raccontarsi nella lingua locale. Il contesto culturale va adattato. Sarebbe un errore pensare che ciò che hai raccontato sul mercato italiano possa dare gli stessi risultati su una piazza estera specifica. Poi serve tempo: la reputazione costruita col tempo riguarda non solo il prodotto, ma il comportamento dell'impresa. La paura è quella di dover ricominciare da capo proprio dopo uno scivolone». La reputazione di un’azienda ormai è anche ciò che serve per attirare nuovi dipendenti. La disoccupazione è in calo nel Nord Italia: significa che tutti o quasi lavorano e, pertanto, se vuoi assumere qualcuno di valido devi “rubarlo” ad altri. «Durante il primo lockdown ci siamo accorti – spiega l’ospite – che circa il 50 % dei millennials, cioè persone tra i 30 e i 40 anni, hanno deciso di cambiare totalmente lavoro. Significava uno scollamento di lavoro tra impresa e dipendenti. Come trattenerli? Ci siamo resi conto grazie alla pandemia che l'aspetto monetario non è l'unico criterio con cui il dipendente sceglie dove lavorare. Ora tutti sono più attenti nel comportamento coi dipendenti, come lo sono coi fornitori». Spesso poi, ed è un altro punto chiave, le aziende non sono brave a “vendersi”. Fanno molto per la comunità dove sono insediate, ma hanno timore di raccontarlo o mancano le capacità di farlo. Di solito, l'azienda più è strutturata più di norma struttura la comunicazione marketing tesa verso l'esterno. La gestione del personale rimaneva prima un ufficio di scartoffie, qualcosa di importanza quasi secondaria per via di una difficoltà culturale diffusa in Italia, cioè il vedere la necessità di costruire anche un reparto che vada a braccetto col marketing e la comunicazione.

UN SOSTEGNO NELL'ACCESSO AL CREDITO

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C’è un tema, molto caro alle Pmi, che è quello dell’accesso al credito: la reputazione di marca, o brand reputation, influisce anche sulle chance di una azienda con gli istituti bancari? Risponde Carboni: «Comincia ad essere così. Sempre di più ci sarà attenzione e verrà valutata meglio in termini pratici e di accesso al credito l'azienda che è più sostenibile. La reputazione d'impresa è un riflesso del comportamento virtuoso, e la sostenibilità è l’argomento principale. Quasi non si parla d’altro. C’è una necessità globale forte a riguardo e anche l’Italia la sta scoprendo. Nelle imprese nostrane c'è questa forte coesione col territorio e con la parte sociale che aiuta in questo senso, e spinge nella direzione di ciò che oggi viene chiamata sostenibilità».

Ricordandosi sempre che spesso è l’imprenditore l’anima dell’impresa, anche quando la reputazione forte è costruita intorno al prodotto. La “reputazione di marca” è destinata a crescere ancora, in futuro, in modo esponenziale. Serve un cambiamento, da un marketing come soddisfacimento dei bisogni a un marketing come processo che coinvolge tutti gli stakeholder, nella creazione di un impatto positivo che abbia come risultato il profitto”. Ed è a quel punto che la reputazione diventa fondamentale.

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