Essere sempre più esperti, bravi e sapersi inserire nelle nicchie, anche se tutti ci provano. Quella di Mario Braga, titolare della Ambassador’s Style Srl (produzione tendaggi e arredamenti), non è una ricetta. Si tratta “solo” di esperienza. Ma tutti sono così bravi da poter raggiungere l’eccellenza in prodotti particolari? No, ovvio! Infatti vent’anni fa il tendaggio nel mondo proveniva da Gallarate, Busto Arsizio e Como. Oggi, nel nostro territorio è rimasta solo l’Ambassador. Un nome, quello dell’impresa gallaratese, che richiama vecchie glorie degli anni Cinquanta: il progetto imprenditoriale di Braga, infatti, nasce all’Hotel Ambassador di Napoli dove lui, giovanottone dalle tante idee e dalle belle speranze, contattò il primo finanziatore, guarda caso un gallaratese. Lei però ha vissuto in Uruguay… ….Ho frequentato le elementari a Montevideo dove anche Giuseppe Garibaldi insegnò aritmetica. Mio padre produceva tubi in cemento per impianti fognari e acquedotti. A undici anni, di ritorno dalla scuola, “piazzavo” la merce nei cantieri edili: la mia passione imprenditoriale ha radici lontane.
Esistono prodotti che la sua impresa non fa perché non vuole farli?
Siamo aperti a tutto, ma non abbiamo mai ampliato il ventaglio dei prodotti per la sola ragione di fare fatturato.
Come si costruisce un piccolo impero imprenditoriale?
L’imprenditore è un uomo fortemente legato alla sua storia e a coloro che l’hanno saputa interpretare. Un’impresa richiede un mercato che la sorregga, un imprenditore illuminato e discendenti che sappiano leggerne i segnali.
Suo figlio Davide è laureato alla Bocconi di Milano e segue le strategie commerciali dell’azienda; suo figlio Paolo, invece, ha una laurea in filosofia e insegna all’Università Cattolica di Milano. Essere imprenditori: vocazione o scelta?
Vocazione. Anche se un imprenditore deve tastare il polso alle nuove generazioni e capire le loro intenzioni. Io l’ho fatto con Telemaco, il servizio di “mangement in affitto” con il quale ho “scoperto” la passione di mio figlio Davide. E ne hanno parlato “La Repubblica” e “Il Sole 24 Ore”.
La passione è fondamentale?
Sì, ma anche l’educazione. Oggi tanti giovani pensano che essere imprenditori significhi Ferrari o Porsche: un imprenditore sbagliato crea solo danni. Imprenditori non si nasce, lo si diventa.
E’ questo che lei dice ai giovani quando li incontra nelle aule delle scuole?
Faccio parte del Lions Club Gallarate Seprio da tanti anni: nel 2000 ho definito un “service” (il programma che si dà ogni presidente durante il suo mandato) dedicato esclusivamente agli imprenditori nelle scuole. Ciò che vedono i ragazzi non sempre è veritiero, quindi noi adulti ci dobbiamo creare lo scrupolo di disilludere e informare.
Lei ha esportato in tutto il mondo: Cina, Indonesia, Australia, Stati Uniti. Con lo stesso inglese “da ragioniere” della Carnelli di Gallarate. Come ci è riuscito?
Mia moglie conosce benissimo la lingua perché ha studiato in Inghilterra , ma quando mi propone una “translation” preferisco le mie quattro parole: price, delivery, expensive, understand.
E così ha chiuso alcuni fra i maggiori contratti della sua carriera imprenditoriale?
Una volta partii per una vacanzina a Malta, con mia moglie: in valigia ci misi anche alcuni campioni. Poi affittai un taxi per due intere giornate e chiusi otto contratti per un valore di settanta milioni di lire. E lo stesso accadde a Hong Kong.
E poi?
…Poi volo da quando ho vent’anni: decine di volte in Australia, Sud Africa e negli Stati Uniti, Manhattan la conosco come Milano. Tre settimane all’anno per fare il giro del mondo. Negli anni trionfanti, dal 1970 al 1990, anche un importante fatturato.
Quante crisi ha conosciuto dal 1965 ad oggi?
Tante, tutte diverse ma nessuna come questa. Negli ultimi tre anni sono cambiati il costume e il modo di pensare. Una volta, per esempio, il corredo per le figlie era tutto: si iniziava dal battesimo. Oggi le donne si sono accorte che per sposarsi, prima di tutto, serve un marito. Una parola come “guerra” blocca, impaurisce, chiude lo sguardo al futuro.
Le ragioni di questa crisi?
La prima responsabilità va a noi italiani, che abbiamo venduto i macchinari obsoleti ai Paesi in via di sviluppo, abbiamo formato il personale e abbiamo lasciato che tante lavorazioni nostre diventassero esclusive degli altri. La seconda alla Cina e all’India (che hanno condotto l’Italia al tracollo) e la terza all’euro: che ha fatto del bene ma ha cancellato l’anima vera della competitività nel nostro settore.
E le microimprese?
I Piccoli devono giocare sul loro terreno: nicchia, intelligenza, esperienza.
Come si supera una crisi economica?
Non ci riesce neppure Tremonti, pensi i piccoli imprenditori! Si naviga a vista e si è sempre al buio. Sa, mi sento un po’ come al malato che si dice “mangia in bianco e poi vedrai: starai subito bene!”. Si è insoddisfatti, si ha il terrore quando inizia un nuovo mese, ma poi si va. Però non è un buon modo di lavorare. Con l’apertura dello spaccio all’Ambassador cosa è cambiato? E’ un’esperienza istruttiva, perché ci tiene legati al gusto del pubblico e a ciò che pensa sul mondo. Ormai, la nostra area commerciale supporta per il 60% l’intera azienda.
Cosa non le piace dei giovani imprenditori?
Alcuni sono colti e laureati, quindi nulla da dire, ma nella gestione aziendale fanno più fatica delle vecchie generazioni. Ai miei tempi c’era il titolare e il responsabile di produzione: insomma, il suo braccio destro. Oggi tutto è assorbito dai manager, dai consulenti: è tutta una sbavatura. Insomma, i giovani vogliono fare i “ganzi”.
Cioè?
Molti sono solo imprenditori dell’apparire. Mi è successo di chiedere, alcune volte, “dove è il responsabile?”. A giocare a tennis o a golf! Qui all’Ambassador i rappresentati mi telefonano anche alle sei del mattino e sanno di trovare sempre qualcuno sino alle otto di sera.
I giovani, però, hanno dalla loro la tecnologia. No?
Biasimo l’abuso degli strumenti elettronici. Sarò esagerato, però i camion si caricano a spalla, non con l’Ipad o l’Iphone. Quando vado in banca mi chiedono se ho il “Pin”: per favore, no! Torniamo ai vecchi tempi: se non possiedi un codice ti fanno sentire uno stupido. Diverso è il discorso per quanto riguarda la tecnologia applicata al prodotto: lì non accetto scusanti.
Quali i punti di forza del suo essere imprenditore?
Il mio primo biglietto da visita è la serietà. Poi, la correttezza. Mai lasciare le cose in sospeso: se fai il furbo anche una sola volta, sei finito.
Quali sono gli errori che un imprenditore del suo settore dovrebbe evitare?
Gli investimenti sproporzionati: anche nei momenti migliori non ci si deve abbandonare all’entusiasmo. Poi, mai delegare: non c’è niente di peggio. Un imprenditore dev’essere sempre presente. Tra i miei dipendenti – oggi una dozzina – ci sono donne che lavorano con me da più di 40 anni. Mi rendo conto, l’azienda può sembrare un poco “geriatrica”, ma io ne sono orgoglioso perché vivo un rapporto diretto con loro. Forse a volte sono burbero, ma è solo chiarezza: ci si dice tutto e si risolve tutto.
Ad un buon imprenditore serve più intuito o più coraggio?
Entrambi, come le dosi in un cocktail. Però il coraggio è più importante. Prenda Silvio Berlusconi: come imprenditore ha una marcia in più. Nel suo fare impresa l’80% è coraggio. Subito dopo arriva l’intuito, che è una qualità più comune. Se ci pensa, nessuno è portatore di coraggio.
Il valore aggiunto della sua impresa?
Offrire sempre qualcosa in più. Entrammo nella catena Macy’s di New York con un solo prodotto; finimmo col fornire sedici tipi diversi di tende. Grazie ad una qualità che nel tempo ha registrato una escalation nel gusto, nel disegno, nella fantasia.
Perché un potenziale cliente dovrebbe acquistare le sue tendine?
Sono sul mercato da 50 anni e da allora mi sono occupato di tutto ciò che fa parte del mio settore. Insomma, prima si punta alla qualità. E’ come quando hai sete: prima chiedi una Coca Cola; se l’hanno finita ti accontenti della Pepsi o di un Chinotto. Noi siamo la Coca Cola: questo me lo permetta!.
Una volta conquistato un cliente, come lo tiene stretto?
Prima lo si mette a suo agio: accoglienza, cura dell’ambiente, disponibilità. Aiuta anche una buona dose di signorilità. E poi un pizzico di psicologia, perché se lo conquisti prima di parlare del prodotto, è fatta.
Chi è, per lei, l’artigiano?
Chi conosce e sa interpretare la propria azienda. Chi passa tra i suoi collaboratori e dice, ancora: “Al sa fa insci”. Come Giovanni Rana con i suoi ravioli.