Lavoro qualificato e accesso al credito per una politica industriale di successo
Da Industria 4.0 al nuovo ddl Made in Italy, alle imprese da tempo si chiede di transitare verso modelli più tecnologici e green di produzione. Ma quali difficoltà incontrano le Pmi? Ne parliamo con Anna Menozzi, professore associato di Economia e gestione delle imprese del dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale

«I piani di politica industriale sono utili per abbattere i costi di produzione o per incentivare l’acquisto di macchinari tecnologici e più green, ma la crescita del tessuto imprenditoriale non può prescindere da politiche che incentivino l’assunzione di forza lavoro, specialmente quella qualificata, e che agevolano l’accesso al credito».
È così che risponde Anna Menozzi, professore associato di Economia e gestione delle imprese del dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale, se le si chiede di riflettere sulle principali sfide che le piccole e medie imprese stanno affrontando in questo periodo storico. A loro da tempo si chiede di transitare verso un futuro più tech, digitale e attento all’ambiente, ma accedere a sgravi fiscali o bonus statali non basta per sostenere la produttività e la competitività del grande motore economico dell’Italia: le piccole e medie imprese.
Professoressa, come primo elemento di criticità per le Pmi ha sottolineato il tema della forza lavoro. Può spiegarci meglio cosa intende e in che modo interferisce con lo sviluppo dell’imprenditoria italiana?

La creazione di nuove imprese deve accompagnarsi a un aumento della forza lavoro. Questo tema è particolarmente rilevante per le piccole imprese, specialmente quelle micro, che impiegano i familiari. Ciò non è di per sé negativo, però bisogna fare il possibile affinché tutte le imprese rimangano aperte al mercato del lavoro e continuare a essere il motore dell’economia. L’assunzione di personale ha un costo che diventa più alto quando si tratta di un lavoratore qualificato. Le imprese, quindi, devono essere incoraggiate a impiegare lavoratori adatti agli obiettivi di sviluppo e crescita che si sono poste, affinché l’innovazione tanto auspicata possa rendere effettivamente più produttiva, competitiva e attrattiva un’impresa.
Come si potrebbe risolvere il problema secondo lei?
Deve essere dato alle imprese un incentivo molto chiaro - e qui entriamo nell’ambito della politica economica - che le spinga a rivolgersi anche all’esterno della propria cerchia familiare. Così come nel tempo sono stati individuati incentivi per l’innovazione, con sgravi fiscali legati ad esempio ai piani di ammortamento, bisognerebbe adottare misure simili per alleggerire il costo del lavoro.
Un altro punto critico che lei ha individuato è il costo del credito.

Sì. In questo periodo si sta prospettando un problema di finanziamento delle imprese a causa dei tassi di interesse aumentati. Si tratta di un problema importante data l’importanza che la liquidità e, in termini più ampi, il capitale circolante riveste per l’impresa. Tassi così alti aumentano anche il timore di insolvenza. Una paura che molti imprenditori già hanno a causa delle difficoltà portate dal Covid e non ancora del tutto superate e delle instabilità a livello macroeconomico legate anche al conflitto in Ucraina scoppiato a febbraio 2022. Durante il periodo del Covid, il Governo ha agito anche fornendo liquidità diretta, con soluzioni tampone e tempestive, ma gli effetti di quella crisi non sono ancora terminati. Deve esserci un'attenzione da parte della politica affinché le imprese non si ibernino, ovvero non si astengano dalle operazioni che porterebbero alla loro crescita solo perché vedono un rischio.
C’è quindi anche un problema di fiducia nel futuro?

Esatto. Le aspettative delle imprese italiane sono fondamentali per influire poi sul loro effettivo risultato. A determinare la formazione di queste aspettative è anche la stabilità politica: c’è bisogno che una volta sviluppato in piano, si pongano le condizioni per attuarlo. Se si percepisce instabilità le imprese sono portate a fare meno investimenti in tecnologie o in formazione dei dipendenti, a non intraprendere progetti con più elevato rendimento, ma anche grado di rischio, a non assumere personale. Il discorso cambia se invece vedono da parte delle istituzioni la predisposizione ad essere coerenti con i piani progettati e ad aiutare.
Negli ultimi anni i piani industriali hanno spinto molto sulla transizione ecologica, secondo lei quale è il principale ostacolo per le Pmi?
Ora che provano a uscire dalla crisi portata dalla pandemia, le piccole e medie imprese cercano soprattutto di tamponare i danni subiti. In questo momento si cerca di mantenere una sostenibilità economica, di recuperare o mantenere i rapporti con gli intermediari finanziari e in ultimo di portare a termine quei progetti che si erano date per una crescita dimensionale. È questione di priorità. Diverso invece il discorso per le grandi imprese, dove il tema dell’ammodernamento in chiave tecnologica e ambientale del processo e del prodotto è già stato interiorizzato. Da un lato perché incide sulla valutazione nel mercato finanziario, dall’altro perché anche a livello europeo è richiesto che vengano prodotti dei bilanci che riportino i risultati in termini di sostenibilità non solo ambientale, ma anche di governance, finanziaria e del lavoro. Valentina Ruggiu