Il 2020 ci ha portato il digitale. Nel 2021 dobbiamo imparare a usarlo per far crescere l'impresa

Il 2020 ci ha portato il digitale. Nel 2021 dobbiamo imparare a usarlo per far crescere l'impresa

È stata una vera e propria corsa. Quasi un tuffo nella tecnologia, ghermita a piene mani come fa un assetato in una pozza d’acqua: per molti imparare il digitale ha rappresentato una questione di sopravvivenza, per altri solo l’approfondimento di quanto già in parte conosciuto e applicato. E per altri ancora l’esigenza di apprendere un alfabeto, come si fa prima di partire per un lungo viaggio in un paese straniero. Ma cosa resterà di tutto questo una volta superata l’emergenza pandemica? Ci sarà un ritorno alla vita «fisica» o un allontanamento ancora più repentino da quella che ora tutti chiamano «presenza»?

La nuova normalità sarà «più in presenza e più in digitale»: a prima vista una contraddizione in termini, ma in realtà vera poiché la cognizione del digitale e della presenza sarà semplicemente diversa, composta da una miscela di impieghi necessari fra tempo e tecnologia. Un’idea che piace a Gianluca Salviotti docente di sistemi informativi alla SDA Bocconi e trattata in un intervento del rettore Gianmario Verona sul Corriere.

Ma, professor Salviotti, cosa cambierà alla fine per le piccole imprese: anch’esse divise fra fisicità e digitale? «Userò una metafora per descrivere il momento: tutti, dal cittadino all’imprenditore, in questo periodo pandemico hanno “abbassato i freni“ sul digitale, cioè tutti hanno cominciato ad accettare alcuni passaggi in maniera deliberata». Si riferisce a qualcosa di specifico? «Sicuramente all’e-commerce, croce e delizia dei nostri imprenditori ma di cui ora non possiamo più fare a meno. Ma dal punto di vista aziendale, è ora il momento di capire cosa farne davvero, come fare per “diventare grandi“. Non si torna indietro. Un consiglio per il 2021: farsi alla svelta un’idea di come il digitale possa venir capitalizzato. Siamo parlando di un bene a “fecondità ripetuta“, cioè qualcosa che rimane, e su cui si possono costruire prassi - virtuose, vorrei aggiungere - così da far diventare questo bene un vero e proprio asset, qualcosa che è possibile portare avanti nel tempo. Il digitale non va percepito come un male necessario ma una sana abitudine per migliorare il proprio lavoro, e quindi l’offerta al cliente».

Professore, qualche esempio. «Anche una banalità, come può sembrare l’agenda elettronica: è invece diventato uno strumento potente per organizzare il lavoro. Diciamolo: una delle grandi pecche di chi offre servizi è spesso l’organizzazione del tempo, la promessa di fare e poi non riuscire. Una maggior organizzazione del lavoro può aiutare passando anche da semplici “tools“. Anche attraverso l’uso dello smartphone, magari servendosi della videocamera su whatsapp, strumento utilissimo durante la pandemia per garantire servizi di base di molti cittadini ma che ora pretendono venga utilizzato da chi offre beni e servizi: oggi lavorano così dalle pizzerie alle farmacie. I dottori mandano le ricette in via telematica, analizzano gli esami su whatsapp. Io stesso ho potuto cambiare la batteria della mia auto attraverso una videochiamata. Voglio dire: questo non è né il futuro, né un gioco. Succede adesso. Quindi anche un preventivo, un consulto, una valutazione al cliente devono passare dalla tecnologia. Abbiamo un laboratorio, qui in università, che ha coniato il termine “postdigitale“. Vuol dire basta parlare, è il momento di fare, anche e soprattutto per gli imprenditori, anche artigiani, per i quali il digitale è diventato a tutti gli effetti un asset».

Ma una semplificazione così repentina per molte attività fino a dieci mesi fa ancora poco avvezze alla tecnologia, non comporta rischi per le Pmi? «Certamente. E qui sta un altro passaggio a mio avviso molto importante, fondamentale. Il digitale va insegnato a scuola e rappresenta una risorsa, un vero e proprio fattore produttivo e quindi non va gestito con sufficienza, ma con grande attenzione. Per questo credo che il tema andrà prossimamente affrontato con una logica assicurativa. Se il digitale è un asset, perché non tutelarsi contro i rischi? Beninteso: le capacità di hackeraggio oggi sono in grado di bucare le reti delle istituzioni governative di Paesi evoluti. Per questo non occorrono investimenti in infrastrutture, basterebbe puntare su specifici prodotti assicurativi che trasferiscono il rischio. Del resto, un macchinario non viene forse assicurato? Così sia anche per gli strumenti digitali».