Globalizzazione o de-globalizzazione? Il mondo che cambia cambierà anche il modo di fare impresa

Globalizzazione o de-globalizzazione? Il mondo che cambia cambierà anche il modo di fare impresa
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Quando qualcuno prova a prevedere l’immediato futuro non con i tarocchi o la sfera di cristallo, ma con dati oggettivi, conoscenze e un’analisi lucidissima, allora è sempre affascinante. Alcuni esempi: la Cina che punterà sempre sulla propria economia interna. La Russia (questa è facile) con cui si potrà commerciare sempre meno soprattutto se si è europei. Le imprese italiane che riscopriranno la necessità e la gioia di “fare rete” tra di loro nei commerci. Le strategie a lungo termine di riportare sempre più vicini i centri di produzione dei vari componenti, senza che siano più sparse in giro per il Mondo. E così via.

Parlava di “Globalizzazione e de-globalizzazione: come cambierà il modo di fare impresa?” l’Item di martedì 24 maggio di Imprese e Territorio. “La fine della globalizzazione – la traccia – è reale? Ed è una diretta conseguenza del combinato disposto pandemia-conflitto bellico? Tutti temi affrontati nel corso della diretta con il professor Marco Lossani, ordinario di economia politica alla facoltà di economica dell'università Cattolica.

Altra premessa: «L'impressione avuta vivendo questi tempi complicati e surreali è che si siano spezzati dei fili, delle reti, che qualcosa sia cambiato in questo mondo completamente interconnesso, e che si possono interrompere bruscamente rapporti commerciali rilevanti. È finita la globalizzazione spinta degli anni passati?».

IL RALLENTAMENTO DELLA PANDEMIA

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«Alcuni – è la risposta del professore - hanno già parlato durante lo choc pandemico di “rallentamento” della globalizzazione. Penso sia un processo iniziato nel 2008 con la crisi economica. Di fatto, la globalizzazione è l'interdipendenza tra i sistemi economici, sia per un crescente interscambio di beni e servizi sia per la cresciuta mobilità dei capitali. Le economie hanno iniziato a scambiare sempre di più beni e servizi. Il punto massimo è stato il 2008, appena prima della crisi finanziaria globale che ha causato un forte rallentamento nella crescita dei flussi. Dopo 2 anni abbiamo assistito a una crescita moderata dell'interdipendenza. Il Covid è stato un duro colpo, e durante la fase acuta della pandemia le catene globali del valore hanno funzionato molto male. Un esempio è la nostra dipendenza dalla Cina per produrre semilavorati e componenti». «Parlare di de-globalizzazione – chiarisce Lossani – è prematuro, anche se modello è in crisi dallo scoppio della guerra russo-ucraina: per alcuni il declino è partito da lì».

Ma è pensabile e probabile è probabile un incremento dei prezzi, non aggiornati ai redditi? Secondo l’esperto la globalizzazione negli ultimi decenni ha sempre cercato efficienza. Le catene globali del valore frammentavano per fasi il processo produttivo. Era la logica di una catena gestita con criteri di efficienza tali per cui si cercava di ottenere sempre il minor costo di produzione. Le conseguenze meno positive, ma ovvie, riguardano alcuni soggetti che non potevano sopravvivere in questo mondo caratterizzato dalla continua efficienza. «Il problema odierno – spiega – è la situazione simile a quella degli choc petroliferi degli anni Settanta. Si chiama stagflazione: l’aumento dei costi di produzione si associa a un rallentamento dell'attività produttiva. Oggi viviamo il rischio di stagflazione in conseguenza della pandemia e del conflitto in corso. Operiamo in un contesto in cui moltissime materie prime hanno avuto minor disponibilità dal lato dell'offerta, generando forti rincari».

LA POLITICA DEL FRIENDSHORING

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Il segretario del Tesoro statunitense, Janet Louise Yellen, usò per la prima volta il termine “friendshoring” per definire un concetto opposto all’”off-shoring” sulla base del quale nei decenni scorsi le multinazionali decentravano le produzioni in Paesi a basso costo e opposto anche all’on-shoring (il riportare a casa il business che si era generato all’estero). Il “friendshoring”, ripreso anche dal giornalista economico Dario Di Vico, è questo: «Facciamo affari solo tra noi amici, ché fuori gli altri sono pericolosi». In Occidente attualmente si pensa a questo, o anche al “near-shoring” o al “back-shoring”: riportare vicino al territorio nazionale (o dentro) questi processi produttivi. Essere “dipendenti” da Paesi politicamente ostili non conviene. L’obiettivo potrebbe essere raggiungibile nei prossimi 5 o 10 anni. L’Europa infatti dovrà giocare un nuovo ruolo, cercando di costruire una propria autonomia dopo un conflitto che ha creato una forte destabilizzazione. Tutti vorremmo essere indipendenti dal punto di vista energetico, ma l'Europa è priva di risorse naturali e la Cina non è da meno: ha un po’ di carbone, un po’ di petrolio e molte terre rare.

 Ma ha trovato il tesoro in Africa, sfruttandola e costruendosi un’indipendenza energetica. In altre parole: se Putin chiudesse completamente i rubinetti del gas, le nostre case e soprattutto le nostre aziende rimarrebbero a secco. La Cina invece sa cosa fare e sta prendendo una direzione netta cercando di costruire un'asse portando la Russia con sé, vista la sua debole condizione nelle fasi del conflitto.

In Cina si parla di “doppia circolazione”: affiancare al ruolo preponderante del commercio estero uno sviluppo sempre maggiore assunto dalla componente di domanda interna. Ora in Cina i consumi sono modesti perché i salari sono bassi, ma si sa che un modello basato solo sull’export è rischioso perché potrebbero rallentare i flussi. Quindi il destino è quello della chiusura, di alzare i salari per far sì che siano sempre più cinesi a spendere in Cina. Una sorta di “indipendenza interna”.

RIPENSARE I MERCATI DI APPROVVIGIONAMENTO 

Poi ci sono le piccole e medie imprese, preponderanti come numero in Italia, “vasi di coccio tra vasi di ferro” come avrebbe scritto Manzoni, che devono affrontare le problematiche odierne con una pianificazione attenta. Non c’è altro modo. Quasi nessuno avrebbe previsto un “cigno nero” come il Covid, ma da alcuni anni qualcuno parlava di questa possibilità. Una pandemia è statisticamente improbabile, ma non impossibile: forse si poteva cautelarsi prima.

«Un piccolo imprenditore – ha spiegato il professore – per poter galleggiare in questo mondo di incertezza e di choc avrebbe bisogno di avere a sua disposizione la maggiore informazione possibile. Il difficile, se non si è gruppi di grandi dimensioni, è poi elaborarle e definire una strategia per contenere i costi. Di certo d'ora in avanti sarà molto più difficile commerciare con la Russia. Pertanto si dovrà ripensare ai mercati di approvvigionamento. Le opportunità vanno esplorate con le dovute cautele, anche se l'incertezza di natura politica è fuori dal controllo delle imprese e qui non c'è niente da dire».

Per questo, probabilmente, torneremo ad avere una rete di relazioni tra “vicini”. L’imprenditoria italiana punterà a un mercato regionalistico, e tornerà vendere in Germania, Francia, Belgio, Spagna. Come una volta, col nostro “saper fare” imprenditoriale”.

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