Contrordine Italia: la tua manifattura è produttiva ed efficiente
La dinamica della produttività manifatturiera in Italia, da oltre 15 anni, appare pressoché identica a quella di Germania e Francia. Purtroppo, la palla storicamente al piede dell’Italia resta la struttura arretrata dei servizi
Si tratta forse di luoghi comuni, di pregiudizi storicamente consolidati, di visioni condivise ma non sempre veritiere. Fatto sta che la manifattura italiana non è inefficiente, non è scarsamente produttiva, si difende – e bene – dagli attacchi degli altri Paesi europei. Lo si legge nel documento “Il falso mito della manifattura inefficiente” prodotto dal Luiss Institute for European Analysis and Policy. Che alle tante domande sull’andamento del nostro settore manifatturiero, risponde così:
- Le imprese italiane come fonte dei mali dell’economia del nostro Paese? Falso
- La manifattura è inefficiente perché si lega ad una bassa produttività? Falso
- Incapacità delle nostre imprese di gestire in modo efficiente le spese per R&S, brevetti, ICT e investimenti in elementi “intangibili”? Falso
- Il settore manifatturiero è quello che registra una maggiore contrazione dei salari? Falso
- Le piccole imprese come freno dello sviluppo di quelle più grandi? Falso
LA MANIFATTURA, PUNTO DI FORZA
Si potrebbe continuare così all’infinito, ma è bene leggersi “Il falso mito della manifattura inefficiente”, analisi targata Luiss institute for European Analysis and Policy e firmata da Alessandro Arrighetti, Sergio De Nardis e Fabrizio Traù, per rendersi conto che non c’è una sola narrazione economica. E quando a dirlo sono i dati – tantissimi quelli contenuti nel working paper presentato a Bergamo – allora ci si rende conto che la prospettiva di analisi va completamente ribaltata. Lo si legge nel documento: «A costituire forse l’unico elemento di forza di un paese altrimenti destinato a regredire rapidamente nella sua posizione relativa a livello globale è proprio l’adattamento del sistema manifatturiero».
LA “QUANTITA’” PERDE SIGNIFICATO
Le cui performance, così come si dovrebbe fare con gli altri settori, non possono più essere misurate secondo un’idea di produttività (crescita a prezzi costanti) che sembra ormai obsoleta. A sottolinearne l’inadeguatezza fu Giorgio Fruà «in un libro pubblicato trent’anni fa», si scrive ne “Il falso mito della manifattura inefficiente”: «Finché c’è da sapere di quanto è aumentata la produzione di beni relativamente omogenei come l’acciaio e il cotone, come era utile sapere nell’Ottocento (ed è ancora utile sapere nelle economie in via di sviluppo), le misure di crescita a prezzi costanti (la somma delle quantità prodotte di beni finali moltiplicata per i loro prezzi in un anno base, ndr) forniscono una buona approssimazione della realtà. Ma in un contesto di prodotti altamente eterogenei, sofisticati e sempre nuovi, in cui la componente intangibile del valore conta sempre di più, e l’individuazione dei cambiamenti qualitativi diventa virtualmente impossibile, la componente semplicemente quantitativa della crescita perde di significato».
PICCOLO NON È BELLO: IL DIBATTITO CHE DIVIDE
L’economista Fabrizio Onida commenta l’analisi sul Sole 24 Ore: «La dinamica della produttività manifatturiera in Italia, da oltre 15 anni, appare pressoché identica a quella di Germania e Francia. Purtroppo, la palla storicamente al piede dell’Italia resta la struttura arretrata dei servizi, soprattutto di quelli forniti alle imprese». Imprese che producono qualità, un’ampia gamma di prodotti che i consumatori apprezzano ma che sono ancora vincolate al mantra del “piccolo è bello”. Sul concetto, l’analisi entra a gamba tesa: una ulteriore componente delle teorie economiche dominanti «è l’idea che sulla produttività della manifattura italiana pesi la presenza di un “eccesso” di imprese molto piccole che operano con una efficienza estremamente ridotta, e che in quanto tali compromettono il raggiungimento di una soddisfacente allocazione delle risorse. L’argomento mainstream si compone di due elementi: il primo è che il peso delle microimprese in Italia è enormemente superiore a quello degli altri paesi; il secondo è che le microimprese sono in quanto tali meno efficienti delle altre. La prima asserzione, in particolare, è ormai entrata nel senso comune, ed è ribadita incessantemente in tutte le sedi possibili come una verità assoluta.
Però, se da un lato il livello della produttività delle microimprese italiane (numero di addetti inferiore a 10) non è tragicamente inferiore rispetto a Germania (-26,4%) e Francia (-13%), dall’altro bisogna sottolineare la loro straordinaria numerosità in termini assoluti».
LA VOCAZIONE IMPRENDITORIALE ITALIANA
Il fatto sul quale concentrarsi non è tanto il numero di microimprese, quanto il numero assoluto di aziende sul territorio nazionale. Che, sempre secondo il documento, è un valore tipicamente italiano. Infatti, «nel nostro Paese il numero assoluto delle imprese è maggiore rispetto a quello degli altri principali paesi europei. E questo accade in quasi tutte le classi dimensionali. L’Italia presenta un numero complessivo di soggetti produttivi eccezionalmente alto il che, assai difficilmente, può essere considerato un problema in sé: il numero di imprese per abitante, o per unità di valore aggiunto, è pur sempre un indicatore della vocazione imprenditoriale di un sistema economico».
AL PARI DI GERMANIA, FRANCIA E GIAPPONE
A dover essere smantellato, però, è anche il concetto che vede la scarsa competitività tradursi in maggiori importazioni manifatturiere: «Se diamo un’occhiata al saldo commerciale, l’Italia primeggia con Germania e Giappone», sottolinea nuovamente Onida. Che aggiunge: «Il nostro Paese è il settimo esportatore mondiale di manufatti in assoluto, nonostante la prepotente avanzata della Cina, che dal 2000 a oggi quasi raddoppia la propria quota. Quasi il 50 per cento dell’export manifatturiero italiano deriva dalle imprese medio-piccole (dai 10 ai 249 addetti), contro soltanto il 15 per cento di Francia e Germania». Insomma, i “Piccoli” hanno tutte le carte in regola per farsi valere dentro e fuori i confini nazionali.
A questo si aggiunge l’impegno, da parte degli imprenditori, a migliorare continuamente la qualità media e la gamma dei prodotti manifatturieri grazie ai quali l’Italia tiene testa ai maggiori concorrenti europei. E’, dopo tutto, una questione di visione imprenditoriale ma anche di investimenti. Un fronte, questo, sul quale le nostre aziende si dimostrano vivaci perché «sopravanzano di gran lunga Francia e Germania in fatto di investimenti in impianti e macchinari, inclusi i robot installati, anche per l’accelerazione impressa da Industria 2015 – prosegue Fabrizio Onida -. L’Italia conferma i propri vantaggi competitivi non su un basso costo del lavoro, ma sulle ben note risorse di creatività-stile-flessibilità alle esigenze del cliente, gamma di prodotti offerti, capacità di problem solving tecnico-ingegneristico a confronto con i concorrenti di Germania, Francia, Usa, Giappone e Corea».
SALARI NELLA MANIFATTURA
Spostando l’attenzione su un altro tema caldo, il working paper del Luiss institute for European Analysis and Policy sottolinea che «l’assottigliarsi dei consumi è legato a una contrazione della dinamica salariale che si concentra nei settori extra-manifatturieri, e soprattutto nel terziario. Nella manifattura, invece, il livello delle retribuzioni in termini reali seguita a crescere, se pure modestamente, per tutto il periodo (+23,5% tra il 1995 e il 2022, ovvero un po’ meno di un punto all’anno), anche se il suo livello finale risente inevitabilmente della lunga fase di crisi che va dal 2008 al 2013 e poi di quella che corrisponde alla pandemia. Tenendo conto del fatto che la manifattura è di fatto l’unico settore fortemente esposto alla concorrenza internazionale, il dato non appare troppo scadente».
LE DOMANDE DA “UN MILIONE DI DOLLARI”
Fabrizio Onida, in chiusura, regala al lettore due domande sulle quali si gioca il futuro delle imprese italiane:
- La prima: di fronte alla aggressività competitiva di Cina, Corea e altri concorrenti asiatici, quanti spazi di manovra rimangono nei prossimi anni per diversificare i nostri prodotti e assumere maggiore rapidità nella innovazione tecnologica?
- La seconda: come si può impedire l’attuale emorragia di laureati, tecnici, manager verso Paesi vicini e lontani che attraggono le nuove leve del lavoro qualificato non solo con incentivi ma anche con opportunità di crescita professionale trasparenti? Davide Ielmini