Job hopping: le Pmi rischiano di perdere risorse preziose, come evitarlo?

Il fenomeno non è nuovo e ne abbiamo già parlato, ma la situazione continua a complicarsi. Spiega Alessandro Donadio (Tor Vergata): «I giovani hanno il desiderio di un riconoscimento del proprio valore, di una crescita che non dipenda solo dall’anzianità di servizio ma anche da altri fattori, in primis la meritocrazia»

Job hopping

Job hopping, “saltare da un lavoro all’altro”. Un fenomeno che non rappresenta una novità assoluta tanto è vero che Imprese e Territorio ne aveva già parlato con Paola Landriani.

Sono soprattutto i Millennials, ovvero i nati tra il 1980 e il 1996, a cambiare frequentemente posto di lavoro. A portare avanti la continua ricerca di un’occupazione che risulti più gratificante, non solo dal punto di vista remunerativo.

 Ecco, il cuore della questione è proprio questo: quali sono le cause e motivazioni del job hopping? E come possono le Pmi fronteggiarlo, evitando di perdere risorse preziose e ritrovarsi coinvolte in un turn over che minaccia di rivelarsi assai dannoso? La corretta interpretazione di questo trend richiede una visione ampia, perché molte risposte sono implicite e le soluzioni non così complesse come si potrebbe sembrare. Ne abbiamo parlato con Alessandro Donadio, esperto di tematiche del lavoro e docente di Cross-Cultural Management all’Università Tor Vergata, antropologo, saggista e founder di LogosLab. Sempre più spesso viene identificato come “filosofo del lavoro”: definizione inedita ma calzante. Anticipiamo la sua frase che più ci ha colpiti durante questo confronto: «Il fattore umano è fondamentale».

LE CAUSE DEL JOB HOPPING

Job hopping

Cerchiamo innanzitutto di mettere a fuoco le ragioni che conducono al job hopping. Una lettura superficiale potrebbe far pensare a un’incostanza, una sorta di irrequietezza. Se non, addirittura, a una scarsa volontà di impegnarsi e una carente resilienza. Nulla di tutto questo, anzi.

«Io faccio una distinzione – spiega Alessandro Donadio – tra cause di ordine storico-sociologico e altre che invece rispondono allo spirito del tempo». Le prime ci portano a riflettere sul fatto che per lungo tempo «la struttura di vita è stata a lunghissimo termine; le imprese stesse, soprattutto quelle grandi, erano a lungo termine». Una continuità che ha riguardato principalmente due settori, ovvero l’automotive e la Gda (e in parte la pubblica amministrazione): «Entravi in azienda e uscivi alla fine della tua carriera».

Questo meccanismo è cambiato, si è fatto più dinamico per via di strutture organizzative sempre più complesse che da una parte rendono necessaria una rotazione di competenze, dall’altra la necessità di reperire nuove risorse anche esterne. Nel caso delle grandi aziende, in particolare, ciò significa che spesso le risorse interne non bastano e che il ricambio è molto alto. In riferimento alle Pmi, invece, naturalmente questo fenomeno ha una portata ridotta. Ma le suddette esigenze ci sono ugualmente. Proprio tale dinamismo diventa una leva per il job hopping.  

COSA VOGLIONO I GIOVANI?

Job hopping

E poi c’è lo spirito del tempo, che richiede anche una lettura transgenerazionale. «I Millennials – continua Donadio – sono figli della cultura industriale. Nella maggior parte dei casi, i genitori uscivano di casa la mattina e tornavano la sera. C’era un equilibrio a favore del lavoro; loro, invece, cercano un equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Una dimensione migliore, che per esempio può tradursi nello smart working e in una maggiore flessibilità».

A ciò si aggiunge il desiderio di un riconoscimento del proprio valore, «di una crescita che non dipenda solo dall’anzianità di servizio ma anche da altri fattori, in primis la meritocrazia». Non è finita. Contrariamente a quanto alcuni luoghi comuni suggeriscono, i giovani vogliono imparare e arricchire il proprio bagaglio di conoscenze: «Fanno ragionamenti del tipo “io posso restare in quest’azienda se mi fa crescere, mi coinvolge in esperienze interessanti, mi offre un apprendimento continuo. Non mi fai imparare? Allora sto solo perdendo tempo”. Ecco un altro punto determinante: non sopportano l’idea di perdere tempo. Un sentimento che stava prendendo forma già da un po’, ma che durante il Covid si è nettamente amplificato. Diventando una sorta di presa di coscienza: “si vive una volta sola, e io pezzi di vita non ne voglio buttare”».

IL RUOLO DELLA YOLO ECONOMY

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E giunti a questo punto del ragionamento, appare inevitabile il nesso con un altro fenomeno in ascesa, quello della Yolo Economy. Dove Yolo sta per You only live once. Vivi una volta sola, appunto. Sono prospettive definitivamente differenti rispetto a quelle del passato. L’attitudine sta passando attraverso una rivoluzione del sentire e dei punti di vista. Negli Usa la Yolo Economy ha un ruolo ormai forte, in Italia non registra numeri eclatanti ma si sta diffondendo. «Lo Yolo è frutto di un’insoddisfazione».

Insomma, l’obiettivo primario non è più il posto fisso. Oggi ce ne sono, come stiamo vedendo, di più importanti. Ne aggiungiamo altri: l’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità. «I Millennials tengono anche a queste tematiche. Si domandano se ciò che fanno in un’azienda abbia una ripercussione positiva sul mondo. Si pongono inoltre il problema dell’ambiente e dell’inclusione».

Essere fautori della Yolo significa pure questo. E Donadio pone un ulteriore accento: «Attenzione, perché se è vero che il job hopping coinvolge soprattutto i Millennials, è anche vero che la generazione precedente non è affatto estranea al fenomeno. Non sono pochi, per esempio, i 40-50enni che preferiscono uscire dall’azienda per fondare una propria start up».

COSA POSSONO FARE LE PMI

Chiudiamo il cerchio: cosa possono le Pmi per trattenere le risorse? Come dicevamo, al tempo d’oggi anche le aziende medie e piccole hanno una minore necessità di persone che entrino a 25 anni per uscire a 64. “Un turn over, per esempio di cinque anni, può essere accettabile. Ma un turn over di due anni, no. Significa soltanto dissipare enormi risorse”.

Dunque, sarebbe opportuno sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda, tanto per cominciare. Andare oltre il business, non trasmettere l’idea che l’unico motore sia la volontà di “far soldi”. Dimostrare che sono attente anche alle persone, ma davvero. Rendere i proprio dipendenti parte attiva. Farli crescere e coinvolgerli. Gratificarli e valorizzarli. Ma in un breve termine, già nel giro di uno o due anni.

«A un primo livello – riflette Alessandro Donadio – metterei proprio la capacità di soddisfare la sete di conoscenze ed esperienze, quindi il coinvolgimento dei giovani nei progetti di innovazione come nei cambiamenti organizzativi. Non bisogna tenerli alla scrivania, bensì motivarli. A un secondo livello pongo la dimensione della qualità. Dunque, un sistema fatto di processi HR in evoluzione, percorsi di carriera, valorizzazione del talento. Sistemi che riconoscano il contributo dei lavoratori».  Infine, un terzo livello, che coincida con norme etiche e deontologiche capaci di dare risposte su argomenti di cui sopra: sostenibilità, inclusione, parità di trattamento (soprattutto economico) dei generi.

«Il fattore umano è fondamentale - conclude Donadio – e lo stesso dicasi per i valori morali. Sono queste le cose che trattengono il lavoratore». Ed è bello pensare che, proprio mentre l’intelligenza artificiale sembra sul punto di prendere il sopravvento, in realtà no. Non è così. Nadine Solano