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Procedura Ue per deficit eccessivo all’Italia, ma le imprese continuano a finanziare il debito pubblico

Procedura Ue per deficit eccessivo all’Italia, ma le imprese continuano a finanziare il debito pubblico
Debito pubblico Italia

Era nell’aria, ed è arrivata: la Commissione europea ha aperto una procedura per deficit eccessivo per l’Italia e altri sei Paesi europei. Che entro il 20 settembre dovranno presentare un piano pluriennale di risanamento delle finanze pubbliche. Spina nel fianco proprio per il nostro Paese: nel 2023 il debito è stato al 137% del Pil.

Un debito che si regge sui risparmi di imprese e famiglie e che, per ora, sembra sia più sostenibile rispetto a quello di altre nazioni.

A dirlo sono i dati Eurostat. Ma le domande che da anni interessano i dibattiti pubblici, e non solo, sono sempre quelle: perché l’Italia non riesce a diminuire il suo debito? Cosa ce ne facciamo di questi soldi? Riusciamo a finanziare la crescita e a sostenere l’economia reale? Soddisfiamo i grandi bisogni della collettività come giustizia, sanità e sicurezza? Come si dovranno comportare le imprese di fronte ad un eventuale, ulteriore, aumento del deficit?

Ne abbiamo parlato con Andrea Uselli, docente di Economia degli intermediari e finanza aziendale all’Università dell’Insubria.

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Professore, imprese e famiglie si stanno facendo carico del debito pubblico italiano…
È così: imprese e famiglie, nel 2023, detenevano circa il 13,4% (percentuale ai massimi degli ultimi dieci anni) del debito pubblico: si parla di 383 miliardi di euro complessivi. La cosa interessante, però, è che nel confronto tra dicembre 2023 su dicembre 2022, la quota di imprese e famiglie è aumentata di 4 punti percentuali con un incremento dell’investimento nel debito di 125 miliardi di euro. Se da un lato le famiglie hanno in pancia uno stock di titoli di stato, soprattutto Btp, che raggiunge i 269 miliardi di euro (quota che lo scorso anno è aumentata di oltre 113 miliardi), le imprese non finanziarie presentano un portafoglio più limitato che arriva a 45 miliardi di titoli pubblici. Ma c’è anche un altro dato sul quale è bene concentrarsi: rispetto a dieci anni fa, banche e investitori esteri hanno aumentato la loro esposizione nel nostro debito di circa il 6% in termini assoluti, mentre le famiglie e le imprese del 10%. Facciamoci una domanda: chi investe nel debito pubblico italiano quali aspettative ha? L’Italia cresce troppo poco, ma la fiducia – anche quella delle imprese – per ora c’è.
 

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La Commissione europea ha aperto la procedura di infrazione: la nostra pagella di fine anno non è buona?
Dire proprio di no. Anche perché l’attuale assetto del debito pubblico italiano non è sostenibile per tanti motivi che vengono da lontano. Il nostro Paese ha intrapreso un sentiero di rientro nel rapporto debito/Pil che sta faticando a scendere. Quel 137% vuol dire che per ogni euro di ricchezza generata c’è 1,37 euro di debito. Anche se la nostra pagella non è buona, le condizioni economiche non sono certo quelle del 2011 e 2012, quando è scoppiata la crisi del debito sovrano: allora lo spread era a 547 punti base, mentre oggi raggiunge i 150. In quegli anni i titoli di stato rendevano il 7%, mentre oggi oscilliamo tra il 3,45% e il 4%. Questo non vuol dire che non si debbano trovare soluzioni per garantire la sostenibilità del debito nel medio-lungo termine e intraprendere, subito, un percorso di rientro. Nel 2023, l’Italia ha pagato 79 miliardi di euro di interessi sul debito: pensiamo a quante manovre finanziarie, o leggi di bilancio, servono in termini di entrate nette per coprire la sola spesa per interessi a servizio del debito.

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Sul fronte imprese lei dà una doppia lettura del fenomeno: quale?
Partiamo da quella ottimistica: è un bene che gli imprenditori credano nella capacità economica del nostro Paese. Sono investitori che tendono ad essere un pochino più pazienti rispetto agli altri e sono anche più fidelizzati. La fiducia nello Stato è sorretta anche da buone opportunità di rendimento: un 4% su un titolo di stato italiano è senz’altro attraente considerato che l’inflazione sta scendendo al di sotto dell’1%.
Ora la lettura provocatoria: le imprese comprano i titoli di stato perché non sanno come usare la liquidità che hanno in portafoglio, o non vedono negli investimenti nell’economia reale opportunità di crescita, di sviluppo e di rendimento. Se da un lato c’è fiducia, dall’altro c’è anche paura. La situazione economica è ancora debole, si è dovuta affrontare una policrisi fatta di aumenti dei costi delle materie prime, dell’energia, del credito. E poi il picco dell’inflazione. Si preferisce il 4% di rendimento all’acquisto di un nuovo macchinario. Da parte mia, non ci vedo niente di negativo nell’investire in titoli di stato.
Le imprese italiane (e anche le famiglie) sono ancora poco indebitate nel confronto internazionale, ma le crisi passate hanno insegnato – soprattutto alle imprese – l’importanza degli equilibri della struttura finanziaria. Quindi, una posizione liquida e relativamente sicura in titoli di stato può contribuire anche a migliorare tali equilibri. Cosa diversa e preoccupante, invece, è una Pmi che adotta strategie massicce di compravendita di titoli di stato con una logica speculativa. Penso che in questo modo si allontanerebbe dal suo core business.

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Quindi, è un bene o un male che imprese e famiglie si accollino la maggior parte del debito?
È un bene perché è un segnale di fiducia che rende il debito meno volatile: questi soggetti, come detto, tendono ad essere più fidelizzati rispetto a quegli investitori esteri che, soprattutto nel passato, agivano secondo fini speculativi andando alla continua ricerca di opportunità di profitto offerte da buone combinazioni rendimento/rischio. Invece, diventa un elemento di attenzione se la crescita del debito pubblico dovesse proseguire a ritmi troppo elevati. Una cosa è certa: imprese e famiglie non devono essere i principali detentori del debito. Anche se l’Italia è un Paese solido e solvibile, l’Europa deve fare la sua parte perché nessuno si salva da solo. L’Unione europea è grande, ma all’interno del contesto globale è piccola: rischia la marginalizzazione economica e finanziaria. È l’Europa a doversi fare carico di uno sforzo unitario di crescita.

Perché l’Italia non riesce a diminuire il suo debito?
La riduzione del debito pubblico è una decisione impopolare perché passa necessariamente da un avanzo primario positivo: meno uscite e più entrate. E queste ultime, solitamente, sono generate dalle tasse. Il debito diminuisce se si aumentano i tributi e si riduce la spesa. Ma a questo punto si deve intervenire su pensioni, sanità e così via. La crescita del debito come valore assoluto di per sé non è necessariamente un problema. Lo è, invece, la sua crescita incontrollata in mancanza di un rafforzamento e di una crescita dell’economia. Il rapporto debito/Pil si migliora se si rilanciano la domanda, i consumi, gli investimenti delle imprese, le interazioni con le economie degli altri Paesi. In questa direzione ci vuole uno sforzo comune europeo.
 

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Come?
Pensare ad un debito sovrano internazionale che si affianchi ai debiti pubblici nazionali: questa è un po’ la logica che muove i fondi del PNRR, naturalmente non sto parlando di quelli a fondo perduto. È una questione di Paesi virtuosi e meno: i primi potrebbero intervenire in aiuto dei secondi. E se l’Italia riuscisse a finanziarsi a tassi simili a quelli di altri Paesi virtuosi potrebbe pagare meno interessi. Ma oggi, questa mossa non è praticabile: perché un Paese virtuoso dovrebbe essere contento di pagare anche per gli altri?

Per ora le imprese reggono, ma sul lungo periodo quali saranno gli effetti di un ulteriore indebitamento?
Un primo aspetto riguarda certamente la direzione dei tassi di mercato e le decisioni della Banca Centrale Europea. Ora stanno scendendo e, nell’arco dei prossimi due anni, scenderanno ancora. Se il costo del debito scende, secondo la logica del meccanismo di trasmissione anche le imprese, a loro volta, potranno indebitarsi a condizioni più favorevoli e mantenere margini migliori di produttività e competitività. È vero, però, che con un Pil che cresce dello 0,8% possiamo andare poco lontano e si generano i problemi che ben conosciamo: difficile accesso al credito, minore propensione agli investimenti, margini che si riducono, carico fiscale più alto.

Quindi, si deve puntare a un debito pubblico “sostenibile”?
In questo senso, il percorso è iniziato: oggi non ci sono avvisaglie di rischi estremi come il default o uno spread impazzito. Dal punto di vista economico – crescita e produttività - l’Italia non è un Paese brillante, però ha una buona stabilità politica, una buona credibilità sui mercati internazionali e un buon livello di rating. Però, ha urgente bisogno di riforme strutturali per non disperdere le opportunità irripetibili che, per esempio, arrivano dal PNRR. Questo potrà dare un forte impulso. Non possiamo correre il rischio di essere marginalizzati da un’Europa che, a sua volta, sta correndo questo rischio. Davide Ielmini