«Se la plastica fosse una nazione, sarebbe la quinta per emissioni di anidride carbonica». Parte da un dato forte (proprio perché vero) Ottavia Belli, imprenditrice, fondatrice di Sfusitalia, portale web in cui è possibile trovare il negozio sfuso più vicino tra gli oltre 800 in Italia. Si considera una “nerd degli imballaggi” e tratta con posizioni nette questo tema spinoso e complesso soprattutto ora che la plastica è demonizzata, a ragione o meno. «Quello che colpisce è che imballaggi resistentissimi come quelli di plastica vengano usati una sola volta e buttati. Questo è il paradosso. Da qui deve partire il ragionamento».
La produzione globale di plastica ha un trend in continua crescita, dato che il pianeta non è formato soltanto dall’Occidente. I primi impatti, quelli più palesi, riguardano l’ambiente: microplastiche o nanoplastiche che entrano nel ciclo vitale degli ecosistemi fino a tornare come un boomerang dentro di noi.
Questo inquinamento della filiera alimentare è ormai provato: sempre più studi trovano micro e nanoplastiche all'interno del corpo, deli organi, nel latte materno, nella placenta. Ovunque. Nonostante le caratteristiche virtuose della plastica, che la rendono un prodotto leggero ed eterno – prosegue Belli – noi lo usiamo una sola volta: è il paradosso del nostro tempo. Non gli diamo valore. Sorridendo, dico spesso che 'non dovremmo dire che andiamo a buttare i rifiuti, ma le risorse’: tali sono quando vengono riciclate».
L’Italia, paese particolare per molte ragioni, non sempre ovvie, consuma 100 chili pro capite di plastica all’anno. Nessuno come noi, tranne la Germania. Inoltre deteniamo il triste record di essere in cima al mondo per il consumo di acqua in bottiglia, cioè acqua in un materiale pesante e ingombrante.
Poi si arriva al concetto di “negozio sfuso”. Il bisogno di “comodità + velocità” ha portato tanta gente a comprare tutto confezionato, soprattutto quando l'alternativa non è visibile. «Il negozio sfuso – prosegue l’esperta – esiste, non c'è solo il supermercato: è solo una questione di conoscere le alternative concrete a disposizione. Infatti il riciclo all'interno della filiera della plastica è un settore cruciale. Quando si gestiscono i rifiuti c'è un ordine di priorità. La primissima azione è la prevenzione. Poi ci sono riuso, riparazione, generazione, riciclo. La discarica e l’incenerimento è ovviamente l’extrema ratio. Siccome il trend del pianeta è una crescita globale di consumi e pil, è ovvio che i rifiuti e gli imballaggi aumenteranno. Come si faceva prima dell'arrivo del monouso di massa, alcuni stanno cercando materiali alternativi, se possibile riutilizzabili così da risparmiare risorse».
Belli non è “plasticofoba”, tutt’altro. Ritiene, ad esempio, che usare contenitori di carta sia ancora peggio, siccome gli alberi servono. «Trovo fondamentale che ricerca e sviluppo investano su processi di prevenzione, come fanno varie associazioni che riparano elettrodomestici, o propongono progetti di educazione alla sartoria. Consiglio di preferire un prodotto sfuso, non imballato, e di aderire ai gruppi di acquisto solidali che spesso sposano il concetto di riuso».
Molte aziende tremano. “Come faremmo senza plastica, dato che la produciamo?”. «La mia risposta – conclude l’imprenditrice – è di pianificare un processo di riconversione a ciò che vogliono il mercato e le persone. Se la riconversione non arriva dall'azienda ma per imposizione politica, le aziende saranno sempre in ritardo. Se io avessi un'azienda che produce imballaggi plastici monouso, investirei su quelli riutilizzabili seguendo un trend di mercato globale, soprattutto perché una volta che un trend è appurato, se non fai il salto gli altri ti mangiano. Questo è il momento storico giusto per riconvertirsi».
Chi non è convinto pensi che l’Italia ogni anno paga la “plastic tax” europea (noi la chiamiamo “tassa”, gli altri “multa” per via degli imballaggi di plastica che non ricicliamo). Ogni 12 mesi diamo 860 milioni di euro all’Ue. Investendone un decimo sulla prevenzione ci guadagnerebbero tutti. Davide Maniaci