L’inflazione – arrivata a novembre 2022 all’11,8% in Italia – è partita dall’aumento dei prezzi delle commodities energetiche, iniziato a fine 2021, ed è cresciuta con la guerra in Ucraina e con la crescente volatilità dei prezzi nei mercati internazionali, che hanno raggiunto a marzo 2022 il picco del 44,3% nell’Area Euro e del 51,5% in Italia. Quella europea è, ad ogni modo, diversa rispetto agli States. “Due inflazioni” dalle ragioni e dagli sviluppi completamente diverse, come diverse sono le cause profonde della crisi dei prezzi dell’energia. L’ultimo podcast di Imprese e Territorio ha come ospite Marco Lossani, professore ordinario di Economia Politica alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna Economia Internazionale (laurea triennale), Monetary Economics (laurea triennale) ed Economia dei Mercati Emergenti (laurea specialistica).
«Questa – esordisce l’esperto – è un'inflazione da costi. La crescita del livello dei prezzi in Europa, quello dell’energia in primis, ma anche l’aumento di tutta una serie di materie prime sono le conseguenze di colli di bottiglia già presenti da tempo, a partire dai mesi successivi alla pandemia. Mettiamo insieme questi elementi e capiamo come i costi siano cresciuti in modo considerevole in alcune aree d'Europa. L’ascesa dei prezzi è dunque automatica. In America l’inflazione è perlopiù dovuta a fattori dal lato della domanda. Anche lì le materie prime sono cresciute, ma non così tanto (quelle di natura combustile in particolare sono “schizzate in alto” meno che in Europa). Nonostante questo i prezzi sono più alti perché scontano le conseguenze di una politica economica fortemente espansiva, quella del presidente Joe Biden».
Quando c'è un'inflazione da domanda, dunque come quella negli Usa, la banca centrale riesce a gestirla facilmente. Basta riscrivere le condizioni monetarie, come aumentare i tassi di interesse, per contenerla. In un contesto europeo, quello di inflazione da offerta, la banca centrale ha più difficoltà ad agire. Se aumentasse i tassi di interesse causerebbe un’ulteriore caduta del reddito. Si tratta del classico dei dilemmi: contengo l’inflazione o sostengo il reddito?
Il futuro non sembra così negativo. Secondo la Banca Centrale Europea, forse il picco lo abbiamo passato, ed è partita la fase di discesa. «Dire, però, tra quanti mesi o trimestri – prosegue il professor Lossani – torneremo nel range di normalità e prevedere un tasso di inflazione vicino al 2 per cento, è difficile: è vero che le banche centrali hanno iniziato questa operazione di recessione monetaria, ed erano preoccupate dall'andamento dei prezzi, ma lo erano perché temevano che l’aumento si radicasse. Siamo abituati a vivere in un contesto, quello degli ultimi vent’anni, in cui l’inflazione di fatto non c’era più, mentre ora è vigorosa. Se confidassimo che ci accompagnerà per molto tempo, nelle nostre aspettative rimane l’idea di dover aumentare i prezzi, o chiedere più salario (poiché temiamo che i prezzi saranno più alti a lungo termine). Diventa poi un’abitudine difficile da eliminare. Pertanto questo intervento, forse tardivo ma intenso, da parte delle banche centrali cerca di limitare questo pericolo. Di far sì che le aspettative sul futuro da parte della gente non diventino troppo negative. Finora, anche se i prezzi stanno aumentando, questa deriva non sembra ancora essersi concretizzata».
Ma come affrontare senza eccessiva criticità la risalita? Lossani: «In alcuni comparti ancora oggi soffriamo questi colli di bottiglia dovuti alla mancanza di materie prime o semilavorati che provengono dalle zone di guerra o circostanti. Quando proviamo ad operare all'interno di settori fortemente gravati da scarsa disponibilità, non è semplice gestire il ciclo produttivo. E, di converso, qualora la disponibilità ci fosse, i prezzi sarebbero certamente elevati. Un modo per reagire è cercare di efficientare il più possibile il ciclo produttivo, anche se l'aumento di produttività risente di investimenti fatti in un certo modo nel medio e lungo termine, e quindi non è una soluzione immediata da proporre. L’altra soluzione è di sacrificare un po’ i margini di guadagno. Bisogna poi fare i conti con la dimensione del mercato interno: i salari italiani non sono particolarmente alti, ma i prezzi crescono molto. Quindi nelle tasche, rimane meno».
Un’altra spesa che bisognerà prima o poi affrontare, senza poterne sfuggire, è quella dell’evoluzione in chiave “green”. «Bisogna tenere a mente – prosegue il professore – due punti fondamentali. Gli investimenti risentono del costo dell'investimento, riconducibile al costo stesso del denaro. Occorre notare che nonostante l'aumento consistente dei tassi di interesse, quelli in termini reali sono ancora negativi. L'inflazione è talmente alta che rende negativo il costo reale. Fintanto che una condizione di questo genere rimane, le imprese hanno un incentivo ancora forte perché conta l'aspettativa di crescita del fatturato.
Se tutti sono restii a spendere viene meno l'altro elemento che può spingere le imprese a investire. Dovremo, per rispondere alla domanda, fare i conti col fatto che sarà necessario adeguarci ai nuovi standard della transizione ecologica. Si sarà obbligati a investire per ridurre l’impatto e il volume delle emissioni». La transizione ecologica ha un costo e comporta una ricaduta sul bilancio. Ma l’alternativa è che tra pochi decenni il pianeta sarà da buttare.
Per cercare di fare business in questi tempi difficili d’inflazione, è bene guardare al mercato di prossimità. «Dati gli alti costi di trasporto – spiega Lossani – raggiungere e operare su mercati molto lontani può essere veramente costoso. Agire sul mercato europeo può essere la soluzione migliore. La difficoltà riguarda per ora il dollaro forte e i tassi d’interesse sempre più alti. La novità davvero notevole invece riguarda la Cina: dopo trent’anni di crescita ininterrotta, sta rallentando in confronto al resto dell’Asia emergente».
L’inflazione, infine, può minare la redditività delle imprese, soprattutto quando queste ultime sono orientate a produrre per orientare il mercato interno ed estero e devono confrontarsi con concorrenti che magari hanno al loro interno una dinamica di costi diversa da quell che caratterizza il sistema produttivo italiano. Quelle francesi, ad esempio, godono di un vantaggio rispetto alle italiane e alle tedesche per via dell’energia che costa meno grazie alle centrali nucleari.
La crisi di interi comparti industriali, ad ogni modo, scoppierebbe in modo irreparabile solo se questo shock persistesse nel tempo.