Il posto c’è ma non si trova la persona giusta, oppure, la persona giusta c’è, ma sta per andarsene. Spesso le imprese si trovano in questa situazione, di fronte a questi due casi, quando si tratta di lavoro. Ma nell’attesa delle riforme che riguardano per esempio gli Its e che il giro di nuove competenze si completi, dando al mercato una nuova classe professionale, cosa possiamo fare?
Va premesso che il contesto è molto complesso. Per prima cosa, a causa della difficoltà di ottenere un incontro efficace tra domanda e offerta: le imprese, comprese quelle artigiane, fanno fatica a trovare personale giovane con cui sopperire alle graduali uscite. È così ormai da qualche anno, e ci si aggiunga che il costo del lavoro non accenna a scendere; non si vede alcuna soluzione a breve per risolvere il problema del cuneo fiscale, per esempio.
C’è poi nell’aria una tendenza più recente, anche se in Italia è da verificare: la cosiddetta Great Resignation, il fenomeno diffuso in diversi paesi occidentali – soprattutto gli Usa – di un abbandono ampio e generalizzato di personale che spesso esce dall’impresa pur non avendo ancora alternative professionali certe. È un’onda non ancora arrivata, ma potrebbe benissimo essere cavalcata, e non solo dai giovani.
La complessità è quindi data da elementi diversi, come la volatilità – entrate ed uscite veloci e diffuse in molti settori – la carenza di personale in altri, e una terribile staticità in altri ancora. Per le imprese manifatturiere c’è poi una difficoltà in più, quando si tratta di attrarre e trattenere personale giovane e nuovo: il lavoro è spesso in provincia, un’area geografica e professionale che per i giovani è molto meno attrattiva delle grandi città.
E per quelle artigiane in particolare, se ne associa un’ennesima: per i giovani, lavorare in bottega non è considerato appagante sotto il profilo dell’immagine; anche se è ancora difficile comprenderne le ragioni.
C’è comunque un margine d’azione da parte delle imprese? Quali sono i cambiamenti passeggeri, che magari offrono la possibilità di svoltare o cogliere qualche opportunità, e quali sono invece le tendenze durature che impongono una correzione profonda? E se poi il problema riguardasse la tipologia di persone che cerchiamo, e in particolare le loro caratteristiche individuali e non tecniche?
L’impressione è infatti che i tasti da schiacciare, dal lato dell’offerta e della domanda, siano quelli dei fattori intangibili. Spesso l’impresa mette sul piatto un posto di lavoro che diventerà sicuro, anche in breve tempo, e altrettanto spesso offre uno stipendio più che accettabile, anche in prospettiva. Offre dunque elementi concreti e tangibili.
Eppure, oggi dalla voce di chi cerca lavoro si capisce che non sembrano più essere questi – soldi e sicurezza – i fattori che rendono l’impresa un luogo di lavoro attrattivo. Dall’altro lato, sentendo le imprese, non sembrano essere le competenze o le qualità professionali e tecniche i punti deboli per cui i nuovi assunti non sono adatti al lavoro, oppure non sono in grado di conservarlo nel tempo. C’è un terreno comune, molle e fragile, su cui si sta giocando la partita, e da nessuna delle due parti sembra esserci ancora l’attrezzatura mentale adatta ad affrontarlo.
Le imprese cercano talenti, tecniche, competenze. Ma quando la relazione di lavoro non funziona è per una questione di propensione all’attività che si svolge. Il racconto collettivo di quello che i media chiamano mismatch – mancato incontro tra domanda e offerta – è infatti narrato usando il termine talento. Ma le imprese si rendono conto che manca loro il personale con l’attitudine, non con il talento.
Per questo, a portata di mano c’è il cambio della chiave di ricerca. Bisogna capire meglio cosa serve davvero: il talento o l’attitudine? Ciò che sembra mancare è l’impegno costante, il talento sviluppato nel tempo, la resistenza. Manca l’abitudine ad andare a letto col pallone sul cuscino – à la Maradona – a scendere in strada con il pallone sempre incollato al piede. L’attitudine è infatti l’impiego prolungato e costante del talento. È fatta dalla pratica quotidiana, che si protrae senza sentire la fatica. Che non significa sgobbare, e nemmeno gratis, ma avere la voglia di fare quel lavoro tutti i giorni. Di ripeterlo come un allenamento quotidiano.
Purtroppo, questa sorta di reset collettivo che è l’onda delle grandi dimissioni, e che in Italia si può anche leggere tra le righe delle migliaia di giovani volontariamente inoccupati, nasconde il sogno – irrealizzabile – di trovare subito il lavoro della propria vita, l’unico per cui sia abbia davvero talento. Il pericolo di questa strada è dimenticarsi, da una parte e dall’altra, che cercando la fidanzata ideale si finisce col restare single.
Antonio Belloni
Consulente senior di direzione di Confartigianato Varese