Il futuro del tessile ha bisogno di reti: innovazione, sostenibilità e digitale anche per le Pmi

Il futuro del tessile ha bisogno di reti: innovazione, sostenibilità e digitale anche per le Pmi
Item tessile

«Piccolo è bello?». Forse sì. L’azienda tessile italiana che guarda al futuro deve tenere conto di alcuni concetti chiave. Sostenibilità, in primis. Poi “ricerca”, “innovazione”, “fare rete”, “condividere le idee”. Un settore che non è morto e che anzi in Italia tiene botta più che altrove, ma che ha bisogno di evolversi. Così “Il futuro del tessile tra innovazione, qualità e sostenibilità”, ultimo Item a cura di Confartigianato Imprese e Territorio trasmesso da mercoledì 15 giugno è stata una diretta sui generis. Ben quattro ospiti, Luca Vignaga (Ceo di Marzotto Lab), Giorgia Carissimi (Textile innovation manager - Responsabile Albini_Netx di Albini Group), Giuseppe Rosace (ordinario di Chimica all'università di Bergamo, esperto di Tessile) e Antonio Belloni, coordinatore del centro studi Imprese Territorio, per una durata di poco più di un’ora. «La sostenibilità – era la premessa – è la chiave per aprire le porte del futuro di un settore che molto ha sofferto a causa del tessile. Ma come devono muoversi le imprese? Come possono affrontare il cambiamento in modo corretto?».

DIVERSIFICAZIONE E RICERCA

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Di fatto i due rappresentanti delle aziende, Vignaga e Carissimi, hanno portato le loro case history come esempio di resilienza e di propensione all’aggiornamento. «Marzotto Lab – ha spiegato il primo – è solo una delle tre realtà del gruppo Marzotto. La diversificazione cerca di proseguire la focalizzazione sul tessile, sull'abbigliamento. Abbiamo recuperato il fatturato del 2019 nel 2021, sempre 120 milioni grazie alla crescita della parte arredamento, che ha bilanciato la diminuzione nel mondo del fashion. Tornando alla solita parola”, diversificazione”, ha permesso di avere il bilanciamento tra un comparto che andava bene e un altro che andava male, con l’obiettivo di cercare mercati differenti agganciando il trend della sostenibilità».

«Nel 2019 – così Giorgia Carissimi – abbiamo deciso di creare Albini Next, per concentrarci sull'innovazione sostenibile. Un team formato da giovani ricercatori, che arrivano da paesi e background diversi e che si occupano di tutto, dal controllo del campo di cotone al tessuto finito al lavoro di ricerca di nuove fibre non ancora sul mercato. Inoltre, colorazioni sostenibili in grado di sostituire il petrolio».

Un vero e proprio trasferimento tecnologico tra la parte scientifica e la parte industriale. A questo punto è intervenuto anche il professor Rosace, che ha risposto a una domanda precisa. «Quanto è importante l'innovazione del tessile, e da dove si deve cominciare? cosa può fare una piccola azienda con minori capacità di investimento e ricerca?». «Normalmente – è la risposta – il compito è affidato alle università o alle grandi aziende. Innovazione significa sfida, sacrificio, visione, approccio metodologico dedicato a questo processo. Negli anni, con le altre università e i centri tecnologici del territorio abbiamo costruito quelli che una volta si chiamavano metadistretti: aree tessili che lasciano alla ricerca di base l'impegno della selezione delle idee più promettenti, tra le quali una o due diventano degne di approfondimento». Gli fa eco Belloni: «Alcune aziende possono essere più innovative proprio perché partite per ultime. Prima il processo innovativo partiva dall'alto e scendeva sulle piccole, ora è quasi il contrario perché le piccole sono costrette, pur senza la stessa capacità finanziaria, a trovare nuove soluzioni, tenendo conto che resta difficile per le piccole fare innovazione costante per ragioni di cassa».

INNOVAZIONE E RETI: FARE SISTEMA

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Ancora Vignaga: «Il tema del piccolo è bello viene affrontato in Italia da molto tempo, e ci sono piccole realtà estremamente innovative. Il gruppo Marzotto è una rete di aziende: grandi realtà ma altre si muovono come piccole. Molto viaggiare col pilota automatico verso un'innovazione molto larga creando in azienda una cultura dell’innovazione. Quest’ultima non è mai fatta da una o due persone: è come una valanga, parte ma poi deve coinvolgere tutta l'azienda, ed è indubbiamente + difficile per i piccoli. Le aziende non devono avere confini: il dialogo col territorio è essenziale. Come avrebbe detto Umberto Eco, “Viviamo sulle spalle dei giganti”. Non è facile creare un percorso di carriera in un'azienda più piccola, perché è a conduzione familiare. Ho visto però gente creare la propria azienda arrivando da realtà come le nostre».

Il tessile quindi non è morto, ma serve fare rete per creare una forza propulsiva come conferma anche Belloni. «A volte l'innovazione di una singola impresa non ha successo perché non viene diffusa. Gli imprenditori poco gelosi e lungimiranti sono contenti se invece una innovazione viene ripresa dagli altri, perché crea mercato. Costa fare innovazione come ormai costa tutto, ed è importante anche saper comunicare bene». E ancora, Giorgia Carissimi: «Le due parole che riprendo sono “cultura” e “apertura”. Riuscire a fare innovazione è essenziale, ma deve esserci una cultura interna all'azienda. Noi siamo partiti con questa scommessa, tenendo conto che ha senso creare del network: se un'innovazione a noi non va bene, possiamo cederla ad un'altra realtà. Infine è importante capire il contesto esterno: dove sta andando il mondo».

Basta che, sempre riferendosi alle piccole aziende, la cultura di protezione del proprio lavoro non diventi una barriera. «Le aziende – chiude il professor Rosace – devono riconoscere la “fiducia” verso chi innova per adottare quel modello». «Non sempre – lo appoggia Carissimi – è facile trovare persone che abbiano competenze. I giovani non sembrano avere interesse nel settore, non so quale possa essere la soluzione. Chi potrà sostituirli? Gli operai specializzati sono un tesoro molto prezioso che va custodito».

CAPITALE UMANO E INTELLIGENZA DIFFUSA

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«Fino al 2000 – ancora Rosace – la formazione era affidata agli istituti tecnici industriali, e poi in azienda le competenze si trasferivano da generazione a generazione. Poi è stato il turno di modifiche istituzionali sciagurate a livello di scuola superiore. L'appeal dei corsi di ingegneria tessile è svanito. Mancano risorse umane, studenti interessati al percorso». Quindi, come trattenere i giovani? «Oggi – riflette Luca Vignaga – la crisi è profonda e ci sono possibili risposte diverse. Ognuno di noi ha bisogno di trovare un senso all'interno del proprio lavoro: o la tua passione diventa un lavoro, o l'azienda ha una prospettiva. Bisogna aprirsi alle persone, ai giovani, far capire che hanno la possibilità di crescere nelle competenze. L'azienda ha bisogno di un’intelligenza diffusa».

Il tessile italiano: una dimensione locale o globale? Vignaga: «Il dibattito oggi è molto forte sul tema della de-globalizzazione: andremo verso una regionalizzazione. Se il tema della sostenibilità è vero, e lo è, ed è urgente, trasportare da una parte all'altra del mondo prodotti semifiniti non ha senso, e credo che arriverà una tassa. Un esempio che conosco bene è il lino. Che senso ha che nasca in Normandia, venga lavorato in Cina e ritorni in Europa come camicia? Nessuno. Un’altra necessità è quella di rimpiazzare tecnici o operai specializzati nel settore».

L’esempio di Belloni è illuminante. «Una maglietta venduta negli Stati Uniti tocca più di 10 nazioni. Se costa 9,90 e fa tutto questo giro, come è possibile che nel discorso qualcuno possa pronunciare parole come “sostenibilità” economica o ambientale? Magari il cliente accetterà di pagarla un po' di più, per motivi etici». La sostenibilità, un termine che ritorna spessissimo nel dialogo. «Serve anche – sostiene Giorgia Carissimi – creare una cultura nel cliente, sapendo che se si vuole la sostenibilità servono compromessi come un prodotto magari non così perfetto». Rosace parla di «prodotti che devono essere non dismessi, ma trasmessi, e che serve un compromesso tra alte prestazioni e sostenibilità» mentre Belloni, conclude sintetizzando tutto. «Il cliente quando consuma spesso non vuole fare del male, ed è un atteggiamento fondamentale. Il più grande rischio è non formare i nostri studenti, e all'estero interessa tantissimo il nostro sapere».

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