C’è l’innovazione alla base della produttività

La poca capacità di innovare è il motivo di fondo alla base di una produttività italiana stagnante dalla metà degli anni ’90

L'innovazione porta produttività

L’innovazione tecnologica rappresenta il fattore cardine della produttività, ovvero dell’efficienza produttiva. «Alla radice della produttività c’è l’innovazione: una maggiore produttività implica la capacità di produrre di più, meglio e con minori risorse, attraverso innovazioni tecnologiche, dei processi aziendali e dell’organizzazione, nuove idee – spiega Emanuele Felice, professore di Economic Policy e Economic History all'Università Iulm di Milano – La produttività non è un mero dato numerico ma riassume in sé un discorso di qualità profonda dello sviluppo, questo ci insegna la storia. Nelle società pre-industriali la mortalità era elevata soprattutto per le frequenti carestie: si moriva di fame nonostante la popolazione fosse di circa 200 milioni di persone, oggi invece siamo oltre otto miliardi e la nostra agricoltura produce per dieci miliardi di persone. Questo aumento di produttività in agricoltura è avvenuto grazie all’innovazione. Da una prospettiva storica, la crescita della produttività e l'evoluzione delle tecniche hanno accompagnato l'intera esperienza umana. La poca capacità di innovare è, pertanto, il motivo di fondo alla base di una produttività italiana stagnante ormai dalla metà degli anni ’90».

PRODUTTIVITÀ IN ITALIA E GAP INNOVATIVO

L'innovazione porta produttività

Se fino agli anni ’90 la produttività cresce sostanzialmente in linea con gli altri paesi europei, dal 1995 inizia a rallentare creando un divario mai sanato. L’Italia negli ultimi decenni è bloccata in un circolo negativo di bassa produttività, con una economia che si è trovata meno pronta (e più vulnerabile di altre economie avanzate) alle trasformazioni profonde che si sono via via succedute. Uno dei motivi concerne la prevalenza di piccole e medie imprese in «ritardo tecnologico» rispetto a un gruppo minoritario di imprese contraddistinte da alti livelli di produttività e livelli medio-alti di potere di mercato.

Il deludente andamento della produttività è stato accompagnato da una severa interruzione dei processi di crescita. Ci troviamo di fronte a un paradosso dell’innovazione: il progresso tecnologico accelera in maniera esponenziale, ma il tasso di crescita della produttività cala.

«Tra i paesi avanzati, l’Italia è il paese che spende di meno in ricerca e sviluppo in rapporto al Pil. Ciò è dovuto alla limitata propensione a investire in ricerca applicata delle imprese italiane, soprattutto le Pmi che per loro natura dimensionale dispongono di poche risorse finanziarie da destinare all’innovazione – puntualizza – Esistono alcune criticità dell’attuale modello di trasferimento tecnologico basato sul triangolo imprese, università e società di ricerca che spiegano il gap innovativo e tecnologico dell’Italia nei confronti dei principali paesi concorrenti europei. In Germania, per esempio, esiste il modello Fraunhofer Gesellschaft per la ricerca applicata all’innovazione che ha generato effetti positivi sia a livello microeconomico che macroeconomico. È un sistema per aiutare le piccole imprese che punta decisamente sull’innovazione e sugli investimenti nella ricerca, con un business model basato sulla trasformazione di idee in tecnologie a forte impatto economico e sociale. È un modello che, se applicato in Italia, porterebbe a una crescita della produttività assistendo le imprese italiane lungo l’intero ciclo dell’innovazione».

Se è vero che l'Italia soffre di un problema di bassa produttività, è altresì vero che non tutti i settori vivono gli stessi ritardi nella crescita della produttività. L’andamento della produttività mostra come a livello settoriale vi siano rilevanti differenze in termini di crescita, sia a livello intra-nazionale che in quello internazionale. «Dove non c’è progresso tecnico, non si cresce in produttività. Esistono settori che per loro natura crescono poco e settori, come l’agricoltura, in cui la produttività è aumentata molto – prosegue Felice – Pensiamo al settore dell’industria leggera, quella dedicata alla produzione di beni di consumo destinati al consumatore finale; per fare ciò, non è necessario investire tanto in tecnologia. Certamente esistono margini di miglioramento anche per le aziende di questo settore ma è più difficile crescere in produttività là dove c’è un minor contenuto di tecnologia (e quindi minor possibilità di introdurre innovazione). Le imprese devono essere consapevoli di questo: la crescita della produttività passa dall’innovazione, l’innovazione passa dall’istruzione. La prosperità di un paese sta (quasi) tutta qui».

PRODUTTIVITÀ: DIVERSE CHIAVI DI LETTURA

L'innovazione porta produttività

La spesa in istruzione è una delle possibili chiavi di lettura quando si parla di produttività. Tale investimento rappresenta la soluzione ai molti problemi connessi con i profondi cambiamenti dell’assetto economico mondiale e con un paradigma tecnologico che reclama competenze molto diverse da quelle tradizionali. In un discorso più ampio, la produttività è una questione multifattoriale ascrivibile alla diffusione dell’innovazione e della formazione, alla predominanza della piccola dimensione delle imprese.

L’aumento della produttività è un fattore che partecipa all’incremento dello standard di vita (la crescita dei salari, per esempio, è spesso associata agli aumenti di produttività). Guardando a questo aspetto specifico di produttività considerata come un indicatore di benessere della collettività di quella nazione, oggi l’Intelligenza Artificiale solleva nuove questioni di senso relative all’innovazione tecnologica: con il suo business model a ridottissima forza lavoro potrebbe aiutare la produttività ma anche accrescere la perdita di posti di lavoro (e il disagio economico): «Una società deve interrogarsi su dove orientare lo sviluppo tecnologico, quali sono gli obiettivi che vuole perseguire: la ricerca tecnologica può andare per i suoi sentieri, in maniera «cieca» rispetto ad esempio all’ecologia o ai diritti umani, oppure può essere un’innovazione guidata da un pensiero politico che la indirizza verso la sanità, la produzione di vaccini, un certo tipo di alimentazione o verso la salvaguardia dell’ambiente (per esempio, l’energia rinnovabile o l’abbigliamento ecologicamente sostenibile) – chiarisce Felice – Sono considerazioni non strettamente attinenti alla produttività ma all’orientare o meno l’innovazione verso determinati obiettivi che possono essere stabiliti dalla sensibilità del mercato, dalla politica oppure decisi congiuntamente da mercato e politica. Il passaggio all’auto elettrica è una grande sfida dell’innovazione; il mercato un po’ richiede questa transizione, certo, ma è una sfida fortemente sostenuta dalla politica: per esempio, se io acquisto una auto elettrica non pago il bollo, c’è quindi una scelta politica a valle per favorire con incentivi l’adozione dell’elettrico. Ripeto, è un discorso precipuamente relativo alla direzione da dare all’innovazione ma di riflesso può aiutare le piccole imprese a ridurre i costi: se le piccole imprese fossero finanziate in maniera massiccia a passare al solare si abbatterebbe un costo energetico gravoso, favorendone la sostenibilità con una innovazione di processo che porta l’azienda a efficientare il proprio sistema produttivo. L'innovazione è uno dei principali motori della produttività ma è anche un motore di crescita aziendale sul fronte della competitività, dell’attrattività, della sostenibilità ambientale, economica e sociale».

Certo l’indicatore della produttività è un rilevatore importante dello stato di salute di un’azienda e, a seguire, di una nazione. Come abbiamo visto, il dibattito promosso intorno al tema della produttività solleva spunti di riflessione interessanti in merito alle politiche da adottare per rilanciare la produttività, come l’innalzamento dell’istruzione e della formazione, l’introduzione e la diffusione dell’innovazione tecnologica e dei processi produttivi, il miglioramento della dotazione infrastrutturale. Ma questo parametro non spiega tutto. Forse varrebbe la pena introdurre anche altri indicatori (di sviluppo sostenibile) in grado di circoscrivere meglio il benessere di una nazione, seguendo così il filone di ricerca avviato da Richard Layard e da altri sulla “teoria della felicità”. Paola Mattavelli

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