Salari fermi e competitività: strategie per crescere ora
La seconda puntata dell’indagine di Confartigianato Imprese Territorio affronta il nodo tra salari stagnanti e capacità delle imprese di rigenerarsi

In questo nuovo approfondimento torniamo sul tema cruciale dei salari, un argomento che non può essere liquidato con slogan o semplificazioni. Abbiamo già esplorato, nei precedenti capitoli della nostra indagine – “Salari bassi e produttività ferma: perché servono imprese più strutturate” e “Salari fermi da 30 anni: cosa blocca davvero la crescita e come sbloccarla” – quanto sia urgente rimettere al centro la relazione tra retribuzioni, capacità innovativa e organizzazione d’impresa.
Oggi proseguiamo il percorso con uno sguardo più ampio, consapevoli che dietro ogni numero c’è un sistema economico che deve tornare a pensare in grande. Parlare di salari significa parlare di futuro, di identità produttiva e di responsabilità collettiva. Le imprese non sono soltanto luoghi di lavoro: sono architetture sociali, laboratori di cultura economica e di visione. A loro chiediamo di farsi carico di una sfida che riguarda tutti: riallineare la competitività italiana agli standard europei, investendo in strutture, competenze e governance che diano nuova linfa alla crescita.

«Anni di stagnazione, perdita di poter d’acquisto, aumenti troppo modesti»: Marco Leonardi, professore di Economia politica all’Università Statale di Milano con incarichi nel governo tecnico Draghi, è uno fra i massimi esperti italiani di salari. E proprio su questi si concentrano da tempo le sue riflessioni e domande. La prima: con quali strumenti affrontare e, possibilmente, risolvere uno fra i più grandi problemi che ostacolano le nostre imprese? Da un lato si deve scongiurare «il ritorno mascherato alla scala mobile, che rischia di alimentare la spirale prezzi-salari e porta ad un irrigidimento del mercato del lavoro. Dall’altro, bisogna evitare la flat tax incrementale sul lavoro dipendente, che introduce una logica regressiva del sistema fiscale. Per affrontare seriamente il nodo salariale, servono riforme vere della contrattazione, oggi frammentata».
Professore, per le Pmi il costo del lavoro è un problema: come lo si deve affrontare?
Bisogna distinguere il settore in cui operano le imprese, però devo dire che i sistemi di contrattazione collettiva nazionale, e poi quelli di secondo livello, aziendale o territoriale, in generale funzionano. Sono stati costruiti bene, anche se su misura solo per le piccole e medie imprese dell’industria e della manifattura e non per le altre. Questo sistema, infatti, non funziona per i servizi. Non ha funzionato per tanti anni: se in questo settore si guarda all’andamento dei salari reali ci si accorge che non reggono l’inflazione. Inoltre, il sistema non funziona per quei lavori marginali in settori ai quali, in tutti gli altri Paesi, si applica un salario minimo legale. In nessun Paese i sindacati pretendono che i contratti vengano rispettati effettivamente in settori dove loro non sono più presenti, o fanno molta fatica ad essere rappresentati. Oppure, dove il potere contrattuale è molto basso o dove gli orari sono molto variabili. Infine, c’è un sottoproblema che riguarda solo il 6-7% dei lavoratori e che è legato al salario minimo legale. Coloro che hanno lavori a basso valore aggiunto.

Le Pmi non hanno sempre la forza economica per aumentare i salari.
Per quanto riguarda le piccole imprese, quelle al di sotto dei dieci dipendenti, suggerirei di estendere la soglia della detassazione dei premi di risultato svincolandola da criteri troppo formali. Inoltre, l’aiuto fiscale va usato con razionalità: non deve in nessuno modo sostituire, strutturalmente, i salari con il denaro pubblico. Comunque, ripeto: il problema sta nella contrattazione collettiva, a meno che si decida che questa non serva più. E invece, serve eccome. Servono contratti di riferimento, anche semplici, in modo che tutti siano più tranquilli. Il punto vero è che dal 2010 al 2014, nei servizi, l’aumento è stato molto inferiore rispetto a quello dell’industria. Eppure, l’inflazione è uguale per tutti. E siccome i salari sono calati – nella manifattura meno, quasi a zero, e invece nei servizi molto di più – evidentemente c’è qualcosa che non funziona. La contrattazione deve difendere almeno i salari reali.
Lei sostiene che ci sono tre modi per alzare i salari: quali?
C’è una sorta di narrazione per cui i contratti collettivi coprono tutti i salari e i contratti pirata riguardano pochi lavoratori: tutto vero, ma se i salari reali non sono cresciuti qualcuno ne avrà la responsabilità! Alcune settimane fa la Banca d’Italia ha pubblicato uno studio sull’andamento dei salari contrattuali e dei salari di fatto dal 2021 al 2025 e dice, nero su bianco, che con l’attuale sistema di contrattazione collettiva la perdita reale dovuta all’inflazione, arrivata anche al 17%, non verrà mai recuperata. E questo ci deve preoccupare. Nell’industria e nella manifattura la recupereremo, seppur lentamente, perché la contrattazione collettiva è costruita proprio per questo. L’importante è non guardare al passato - la scala mobile indicizzava tutto e impediva alle banche centrali di controllare l’inflazione – ma al futuro, magari con una inflazione programmata. Dopo due o tre anni, però, il potere d’acquisto deve essere recuperato: in caso contrario certifichiamo il fatto che, da qui in avanti, i lavoratori perderanno il salario reale.

Salari e produttività bassi ma occupazione in aumento: com'è possibile?
Non si tratta di una contraddizione: i manuali di Economia dicono che lungo la curva della domanda di lavoro l’occupazione sale se i salari sono bassi. Cioè, se il lavoro viene pagato poco. Però, è un bel problema. Anche se è vero il fatto, ma credo lo sia parzialmente, che le aziende possono assumere di più perché danno salari bassi, questa non può essere una soluzione di lungo periodo. Il nostro Pil cresce poco, ma cresce. Non possiamo dire che mentre il Pil cresce, il salario diminuisce.
Lei insiste sulla diseguaglianza di reddito: da un lato parla di precariato e dall'altro di crescita dei salari e delle carriere dei giovani e meno giovani. Ci spiega?
Per capire come vanno il mercato del lavoro, e l’economia, bisogna avere uno sguardo ampio ma dettagliato: le cose sono più complesse di quanto sembrano. Per anni in Italia si è parlato di contratti a tempo determinato, legge dei licenziamenti, clausole che definivano se il contratto a tempo determinato era giustificato oppure no, quantità di contratti indeterminati versus determinati. Neppure una parola, invece, sui salari. Che, con un’inflazione quasi a zero per vent’anni, hanno perso il valore reale d’acquisto. Se il problema resta sottotraccia con un’inflazione a zero, viene immediatamente a galla con un andamento inflattivo al rialzo. Così come è accaduto negli ultimi due, tre anni. E tutto questo non dipende dal precariato.
In che senso?
In tanti Paesi europei, il precariato è un tema fisiologico: i contratti precari, come lo sono i contratti temporanei a tempo determinato, aumentano quando si vuole rilanciare l’occupazione e poi si stabilizzano, o si riducono, quando questa va bene. Ora, invece, accade che alcune aziende invece di alzare i salari, e qui penso ai giovani, promettono giustamente contratti a tempo indeterminato che, però, non sono un sostituto dell’aumento degli stipendi. Ma ciò che non si considera è che il costo della vita è cresciuto. Altro problema sono i salari lordi tra i 35mila e i 40mila euro percepiti dai dipendenti: qui si colloca il 9% dei lavoratori. Che pagano la stragrande maggioranza dell’Irpef e delle tasse. E ne pagano sempre di più da quando l’inflazione è andata alle stelle: gli aumenti contrattuali spostano gli scagioni dell’Irpef e portano ad una aliquota maggiore di tassazione. Per uscirne, bisogna indicizzare gli scaglioni. E tutto questo ci porta ad un altro problema.
Quale?
I governi continuano a tassare tanto, tantissimo, i redditi. Non ci dobbiamo meravigliare se un giovane laureato decide di scommettere su una carriera in un Paese estero: in Italia la dinamica salariale sopra i 35mila e 40mila euro è praticamente bloccata. In Spagna, Francia e Germania, i Paesi più grandi, le carriere da lavoratore dipendente sono molto più promettenti (2. continua). Davide Ielmini