Salari bassi e produttività ferma: perché servono imprese più strutturate
L’Italia resta indietro su salari e crescita per via della frammentazione produttiva. Serve rafforzare le Pmi e superare i limiti delle microimprese per tornare competitivi

Perché torniamo a parlare di salari? Perché non possiamo fermarci alla superficie.
Se è vero che da anni i salari italiani crescono meno di quelli europei, è altrettanto vero che le ragioni di questo divario non si esauriscono nei numeri in busta paga. Dietro alla stagnazione retributiva c’è una struttura economica frammentata, un mercato del lavoro che cambia, un sistema produttivo che fatica a generare valore e redistribuirlo.
Dopo aver affrontato la questione con Andrea Garnero (Ocse), nella prima puntata dell’inchiesta firmata da Davide Ielmini, proseguiamo il nostro percorso con Giuliano Cazzola, uno dei massimi esperti italiani di lavoro e previdenza. Il suo sguardo ci porta a interrogare la dimensione d’impresa, la produttività e il modello di sviluppo su cui l’Italia ha puntato negli ultimi decenni. Un modello che oggi mostra tutti i suoi limiti.
«Dobbiamo renderci conto che nel mercato del lavoro italiano si è aperta una fase diversa e del tutto nuova. Ed è per questo che quando si parla di salari si deve anche parlare di dimensione d’impresa: se il nostro Paese vuole uscire dalla sua natura “periferica” deve ridimensionare l’incidenza delle microimprese. Come? Dando il via a processi di integrazione, innovazione tecnologica, organizzativa, professionale e gestionale».
A dirlo è Giuliano Cazzola, già professore alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Alma Mater di Bologna, attualmente nel Comitato scientifico di Adapt e considerato uno fra i massimi esperti italiani di lavoro e previdenza.
Professore, le piccole e medie imprese si stanno ponendo il problema di come tenersi i talenti, ma non è facile: cosa sta accadendo?
Purtroppo, non ci siamo ancora resi conto che nel mercato del lavoro, in Italia, si è aperta una fase diversa e del tutto nuova. Il fenomeno più grave è la crisi del lavoro dal lato dell’offerta che dipende, in prevalenza, dalla difficile reperibilità delle professionalità richieste, ma che lascia intravedere un futuro prossimo (in certe realtà sta già accadendo) in cui sarà problematico reperire manodopera tout court: la denatalità ha falcidiato le unità chiamate a subentrare a quelle che escono. Ciò determina - per la prima volta in questi termini e magari ancora a macchie di leopardo – un incremento del potere contrattuale dei lavoratori, anche in un ambito individuale (in termini collettivi i sindacati hanno tardato molto a rendersene conto). Basti pensare che, quando alla fine della pandemia è stata abolita quella assurda misura del blocco dei licenziamenti, i sindacati si aspettavano milioni di licenziamenti mentre si sono avute centinaia di migliaia di dimissioni volontarie: le persone andavano alla ricerca di migliori opportunità allora disponibili. Capisco i problemi che lamentano oggi le piccole imprese che, in pratica, finiscono per addestrare personale destinato prima o poi ad essere assorbito da quelle più grandi, con le quali è difficile competere sul versante dei salari e delle nuove tutele del welfare aziendale.
Cosa consiglia agli imprenditori della piccola e media impresa?
Per le Pmi sarebbe importante rinnovare i contratti nazionali alla loro scadenza senza cadere in lunghi mesi di vacanza. Ma questo non dipende solo da loro. Poi, si dovrebbe implementare la contrattazione territoriale in modo da uniformare il più possibile i trattamenti. Un’altra via, che potrebbe rivelarsi adatta ad affrontare anche i problemi salariali, potrebbe essere quella di negoziare forme di partecipazione agli utili che, allo stato dei fatti, sono agevolate anche sul piano fiscale.

E’ corretto dire che oggi, se si considera il rapporto tra prezzi e retribuzione, si guadagna meno che nel 1990? E’ solo colpa dell’inflazione?
L’inflazione ha avuto il suo peso. A partire da quel meccanismo con cui si rapportano i salari all’inflazione e che esclude dal calcolo l’inflazione importata, quella che dipende dai prezzi dei prodotti energetici. Sappiamo bene che circostanze eccezionali, e non previste, hanno dato origine ad un picco di inflazione che ha messo fuori mercato retribuzioni e redditi ragguagliati ad un contesto in cui dell’inflazione si era quasi perso traccia. Questo picco è intervenuto durante la vigenza di anni (più i ritardi dei rinnovi) dei contratti di lavoro. C’è poi la questione della produttività del lavoro. Secondo il XXVI Rapporto del Cnel, sul mercato del lavoro e delle contrattazioni, l'indice delle retribuzioni contrattuali orarie è aumentato del 3,1% su base annua. Nel working paper sulla questione salariale della Fondazione Tarantelli, curato da Giuseppe Gallo, si legge che le retribuzioni sono troppo basse e, quindi, bisogna aumentarle anche a spesa della finanza pubblica. Però, bisogna interrogarsi anche sulla relazione tra salari e produttività: da un lato in Germania, Austria, Francia e Olanda e, dall’altro, in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Ebbene, i primi registrano una crescita che va dal 59% al 101%, mentre i secondi dall’8% al 48%. L’Italia si ferma al 22%.
Le ragioni?
Mentre nei primi quattro Paesi la protezione del lavoro è stata sempre associata – positivamente - all’incremento della produttività del lavoro ed alla crescita del Pil, negli altri hanno dominato l’effetto organizzazione correlato al costo assoluto del lavoro, l’effetto investimenti di sviluppo e l’effetto di disturbo associato agli investimenti correnti.

Quali sono le conseguenze?
Si è di fronte a due modelli alternativi di sviluppo: il primo ha il suo baricentro nella strategia di ricerca, innovazione tecnologica, organizzativa, professionale e gestionale dell’impresa, elevata crescita della produttività del lavoro, estensione del mercato. Il secondo, invece, fonda il differenziale competitivo sui minori salari e sul minor costo del lavoro e, quindi, viene depotenziato dalla riduzione degli investimenti in innovazione e dal minor tasso di crescita della produttività del lavoro. Così, se Germania, Austria, Francia e Olanda registrano un incremento medio salariale del 28,30%, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia non superano l’11,87%. Quindi, chi ha investito su ricerca e innovazione, alto tasso di valore aggiunto e competenze professionali e crescita costante della produttività registra un aumento del Pil, tassi maggiori di incrementi salariali e un miglior presidio della coesione sociale. I Paesi, invece, che usano come leva competitiva alternativa il minor costo del lavoro – come l’Italia - vedono tassi di crescita minori, salari inferiori, maggior tendenza alla disgregazione sociale. Un modello perdente, questo, che oscilla continuamente fra stagnazione e recessione. A fare la differenza non è la dimensione quantitativa del lavoro, ma il contenuto di valore aggiunto e di intelligenza tecnologica e professionale dei sistemi produttivi.
Le piccole e medie imprese come si inseriscono in questo contesto?
La bassa produttività del lavoro si concentra nelle microimprese (0-9 addetti): se la Germania è a 100, il manifatturiero italiano si pone su un 78,3. Nella fascia che va dai 10 ai 19 addetti, la produttività del lavoro sale a 102,8, ed è migliore di quella tedesca. Se saliamo ancora, nelle realtà tra i 20 e i 49 addetti si raggiunge un valore di 118,7, tra i 50 e i 249 ai arriva a 128,8, mentre oltre i 250 si scende a 97. Nelle Pmi manifatturiere italiane la produttività del lavoro non solo è allineata, ma addirittura superiore, a quella tedesca e francese e costantemente migliore di quella spagnola. Questa asimmetria per livelli dimensionali si articola in squilibri territoriali e in differenziali territoriali per composizioni settoriali. Così, mentre alcune zone italiane dimostrano la loro integrazione nelle catene globali di fornitura (le filiere da Trieste a Torino, passando per Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia), altre sono residuali o addirittura estranee alle catene della manifattura dell’economia globale. E qui sta l’apparente contraddizione fra l’Italia seconda manifattura europea dopo la Germania e l’Italia nelle ultime posizioni europee – nell’ultimo ventennio - per tasso di crescita del Pil, per crescita della produttività del lavoro, per livelli salariali, tasso di occupazione e disoccupazione generale, femminile, giovanile, NEET, livelli di istruzione, tasso di povertà.

Il dibattito si posiziona un’altra volta sulla dimensione delle aziende italiane?
Bisogna ridimensionare l’incidenza delle microimprese. Come? Dando il via a processi di integrazione, innovazione tecnologica, organizzativa, professionale e gestionale. Se vogliamo, anche di corporate governance per poter contribuire ad una crescita sistemica della produttività, potenziando i settori produttivi ad alto valore aggiunto e ad elevati contenuti professionali (nei quali l’Italia può essere leader globale) e rafforzando il posizionamento competitivo dell’economia italiana. La nostra politica industriale deve assumere un ruolo nella posizione del nostro Paese nelle filiere mondiali: abbiamo tutte le carte per giocare la partita della leadership globale. Per farlo, è essenziale affrontare la questione della dimensione d’impresa e ciò che fa parte del suo contesto.
Cosa?
La gestione esclusivamente familiare, i passaggi generazionali, l’alto tasso di mortalità delle microimprese, il rapporto fra proprietà e management, il rapporto banca-impresa. E’ per questo che si deve guardare alla partecipazione dei lavoratori all’innovazione dell’organizzazione del lavoro e al governo partecipativo multi stakeholder dell’impresa (2. continua). Davide Ielmini