Sempre meno giovani scelgono di fare impresa

Sempre meno giovani scelgono di fare impresa

L’Italia è storicamente un Paese di piccole e medie imprese, ma la nuova generazione sembra orientarsi sempre meno verso questa scelta. Le statistiche confermano la tendenza, aprendo il dibattito sulle cause e sulle possibili conseguenze. Ne hanno parlato durante la diretta del ciclo “Item d’impresa” trasmessa sui canali Facebook, Youtube e LinkedIn di Confartigianato Imprese e Territorio, Donato Iacobucci, docente di economia applicata all’Università Politecnica delle Marche e Antonio Belloni, coordinatore del Centro Studi di Artser..

LA CRISI DELLE IMPRESE FAMILIARI

Una recente analisi del Consiglio Nazionale del Notariato indica che le imprese familiari sono diminuite del 10% nel 2024, segnale che non riguarda solo l’attività produttiva ma anche il patrimonio. Secondo Belloni, i dati mostrano una tendenza che dura da decenni: «Quando nasce un’impresa non nasce solo un posto di lavoro, nasce ricchezza e oggi questa ricchezza finisce in un imbuto imprenditoriale, in mano a pochi eredi». Il nodo è se questi eredi vogliano far fruttare ciò che è stato costruito da genitori e nonni.

L’attenzione si sposta così sulla continuità generazionale. Per Belloni il trasferimento d’impresa dovrebbe essere affrontato non solo in termini finanziari, come fanno banche e promotori, ma anche dalle associazioni di categoria, che dovrebbero analizzare natalità, mortalità e passaggi di consegne come fattori determinanti per la ricchezza collettiva. «Crescono però le imprese fondate da stranieri» ha spiegato Belloni, sottolineando come questo sia l’unico vero elemento di discontinuità nel panorama attuale.

Iacobucci ha confermato e, citando gli studi della Fondazione Moressa di Mestre, ha evidenziato come anche tra le seconde generazioni straniere il calo della motivazione imprenditoriale si ripresenti. «È un fenomeno generazionale, non solo etnico», ha chiarito, indicando che la perdita di slancio riguarda tutti, seppur con dinamiche diverse.

UN DIVERSO RAPPORTO CON IL LAVORO

Il docente ha voluto allargare la prospettiva.  Mentre in passato il dilemma era non voler frammentare il patrimonio familiare, oggi il problema è opposto: ci sono sempre meno eredi disponibili a subentrare a causa del calo demografico».

A questa difficoltà si aggiunge un mutamento culturale. «Le nuove generazioni cercano un equilibrio diverso: la qualità della vita conta più dei sacrifici senza limiti che hanno caratterizzato gli imprenditori degli anni ’60 e ’70, anche perché oggi l’economia mondiale è completamente diversa», ha osservato Iacobucci. Belloni ha offerto una lettura incisiva del cambiamento: «Oggi è raro trovare eredi che abbiano attaccata all’azienda la punta del piede come Maradona col pallone». La metafora sportiva descrive bene un’epoca in cui la vita dell’imprenditore coincideva totalmente con l’impresa. Una trasformazione, quella attuale, che mette ulteriormente in discussione il futuro della trasmissione del testimone.

EREDITÀ E SCELTE DI FAMIGLIA

Il confronto si muove sul nodo delle eredità imprenditoriali, un tema che in Italia assume contorni complessi. Belloni ha ricordato che «cinquanta o sessant’anni fa la vita diventava “seria” nel momento in cui si prendeva in mano l’azienda di famiglia». L’esempio storico di Gianni Agnelli e della Fiat dimostra come il passaggio di consegne fosse un rito di responsabilità che trasformava i destini personali. Oggi, invece, il quadro è cambiato radicalmente: ci sono meno eredi disponibili e le famiglie si trovano costrette a decisioni sempre più delicate sulla continuità delle imprese.

Iacobucci ha sottolineato come non si tratti di eccezioni ma di una regola consolidata: «Genitori che, di fronte a più figli, scelgono di investire su chi dimostra maggiore predisposizione, anche senza titoli di studio formali, puntando sulla motivazione e sulla capacità di sacrificio». Il problema attuale, però, è che «prima avevamo dieci eredi, oggi magari uno solo; se non ha attitudine o interesse, la continuità si spezza». In questi casi, sempre più spesso, le famiglie chiedono consulenze per individuare soci esterni.

IMPRENDITORIALITÀ PASSIVA E RISCHI FUTURI

Alla riflessione si aggiunge un fenomeno che contribuisce alla crisi: la scelta di vivere di rendita. Come ha detto Iacobucci, «molti figli decidono di prendere i dividendi ma di non impegnarsi nell’attività attiva, diventando imprenditori solo sulla carta». Questa “imprenditorialità passiva” permette di godere di benefici economici senza affrontare le responsabilità della gestione, ma mette a rischio la sopravvivenza delle aziende, che spesso finiscono cedute a fondi esterni.

Il docente si è spinto oltre, mettendo in discussione il dibattito stesso sul passaggio generazionale: «A me questo tema appassiona poco perché ogni famiglia è un caso a sé». Il vero nodo, a suo avviso, è la preparazione delle imprese e di chi le guida. Troppo spesso, infatti, «chi ha un’impresa immagina di restare per sempre e anche in tarda età continua a entrare in azienda, restii o incapaci di immaginare il passaggio». È una rigidità che rallenta l’evoluzione e lascia impreparate le nuove generazioni.

Ha confermato Belloni, con un’osservazione che fotografa la difficoltà culturale italiana: «Molti pianificano l’uscita, ma poi tornano». Secondo l’esperto, il modello ideale non esiste; esiste piuttosto «la consapevolezza che c’è un passaggio da affrontare» e che prima se ne prende coscienza, maggiori sono le possibilità di trovare soluzioni equilibrate. Gli scenari possono essere diversi: dall’ingresso di figlie e figli alla scelta di restare semplici proprietari, affidando la gestione a manager esterni.

MANAGERIALIZZAZIONE COME ANTIDOTO

Il coordinatore del Centro studi imprese e territorio ha ampliato poi il discorso: «Non dobbiamo guardare solo ai figli di chi ha già impresa, ma anche a chi vuole attivarne di nuove». Questo è particolarmente evidente nelle microaziende, dove «il turnover è altissimo: tante nascono e tante chiudono, ma questa dinamica ha anche effetti positivi, stimolando concorrenza, efficienza e nuovi talenti». È nei casi di imprese medie e grandi, aggiunge, che il passaggio diventa cruciale, perché si rischia di disperdere non solo ricchezza, ma anche competenze e presenza consolidata sui mercati.

Belloni ha indicato una via che può ridurre i rischi: una struttura più aperta al management consente di affrontare meglio le sfide della competizione internazionale e al tempo stesso garantisce continuità in caso di scarso interesse da parte degli eredi. «Se un’impresa è già strutturata — ha precisato — anche un eventuale disimpegno dei figli o delle figlie non compromette la possibilità di restare sul mercato».

Il punto centrale, ha ribadito Iacobucci, è proprio la managerializzazione, intesa come processo che permette di distribuire competenze e responsabilità. Un’impresa che si apre a figure manageriali esterne diventa più pronta a sostenere sia il ricambio generazionale che l’innovazione necessaria a reggere la concorrenza globale.

DAI CASI REALI ALLE SCELTE DI COSTO

Per Belloni, “managerializzazione” significa innanzitutto distribuire competenze e, quando serve, anche potere decisionale: «Nei casi positivi che vediamo, pagare due o tre manager da 150 mila euro l’anno è diventato una vera exit strategy quando non ci sono eredi attivi». L’obiettivo è selezionare chi guiderà l’azienda come direttore o direttrice generale o AD, evitando “vuoti di governo”.

Le esperienze citate arrivano da imprese di trasporti in Brianza, domotica in Bergamasca e meccanica nel Bresciano: realtà accomunate da imprenditrici e imprenditori “illuminati”. «Lì l’idea di valorizzare il management c’era già — ha evidenziato Belloni — al punto che qualcuno diceva con orgoglio: il mio direttore generale a fine anno guadagna più di me». Un segnale culturale che, aggiunge, «fa la differenza tra aziende buone e aziende che arrancano». Non tutte, però, compiono il salto per tempo. «Ci sono realtà che si salvano solo dopo uno shock, persino luttuoso, quando la proprietà è costretta a trovare l’alchimia con un direttore generale molto forte», ha ammesso Belloni.

Il rischio, quando manca la cultura della distribuzione delle competenze, è duplice: non si accetta l’aiuto esterno e si disperde sapere tacito. «Quel know how costruito in anni di lavoro rischia di finire nella tomba se non viene trasferita a un’organizzazione capace di reggerla», ha avvisato Belloni.

TRA DIECI ANNI: UN’ECONOMIA DIVERSA

Iacobucci ha invitato a guardare avanti: «Siamo nel mezzo di trasformazioni notevoli: rivoluzione digitale e sostenibilità cambieranno professioni e attività». Per questo, il passaggio generazionale «ha senso in contesti statici; oggi la priorità è accelerare sul nuovo». La bussola, per il docente, è chiara: «Abbiamo bisogno di più imprenditorialità in generale e di chi arriva dall’estero: nuovi imprenditori, imprenditrici e nuove attività, non solo aziende che passano di mano». Il patrimonio delle medie-grandi imprese va salvaguardato, ma «il futuro si gioca su chi crea impresa adesso».

Dal suo osservatorio, Iacobucci ha notato un cambio di paradigma: «La tipica impresa “di una volta” nasceva dal singolo che usciva dall’azienda. Oggi le startup partono da team di tre o quattro giovani senza esperienza lavorativa». A questi gruppi serve un ecosistema: «Non hanno capitali accumulati; lavorano bene in squadra, ma vanno sostenuti almeno quando sono promettenti». Le traiettorie più battute? «ICT e applicazioni dell’intelligenza artificiale, insieme a sostenibilità ambientale», ha risposto Iacobucci. Restano ostacoli noti: «La burocrazia è farraginosa e scoraggia; semplificare l’avvio d’impresa è parte della politica industriale».

CAPITALI E FILIERE DEL RISCHIO

Sul finanziamento delle startup, Belloni è netto: «Il tubo che collega il risparmio agli investimenti innovativi perde acqua». Mercati dedicati e percorsi di quotazione «non hanno funzionato come sperato». L’esperto ha notato che si parte quasi sempre con aiuti di “family & friends”: «Se li hai, parti; se non li hai, anche con un’idea forte è durissima trovare chi ti mette 5 milioni per cominciare». Serve, quindi, rafforzare gli anelli dell’investimento seed e early stage. «La politica può aiutare fino a un punto, poi tocca al capitale privato assumersi il rischio», ha detto Belloni.

Iacobucci ha però riconosciuto che qualcosa si è mosso: «Startup Act, incubatori certificati, incentivi di Cassa Depositi e Prestiti ai fondi di venture capital: gli strumenti esistono». Il problema è l’intensità: «In Italia è ancora poco, e arriviamo con decenni di ritardo rispetto ad altri Paesi».

La vera svolta, ha affermato, è culturale e inclusiva: «Siamo legati allo stereotipo dell’imprenditore maschio che controlla tutto; il gap di genere nell’imprenditorialità è ancora fortissimo». Per colmarlo «bisogna convincere molte più donne e ragazze ad affacciarsi alla creazione d’impresa: è lì che si gioca una parte del nostro futuro».

ACQUISIZIONI E VALORE DELLA FORZA LAVORO

Belloni ha poi sottolineato un altro aspetto emergente nelle strategie aziendali: «Oggi nelle acquisizioni non si punta solo al fatturato, ma anche alla forza lavoro, che è diventata un asset preziosissimo». Trovare personale qualificato, infatti, è sempre più complicato e costoso, e questo trasforma i dipendenti e le dipendenti in una delle principali leve di interesse per chi compra un’impresa.

Il nodo del capitale umano, dunque, non riguarda più soltanto la crescita, ma anche la sopravvivenza delle aziende. «Il costo della ricerca di personale è aumentato, e la difficoltà di reperirlo rende ancora più strategico trattenere le competenze già presenti», ha osservato Belloni. Iacobucci ha messo in luce una trasformazione del mercato del lavoro: «Un tempo era l’azienda a dire al candidato “le faremo sapere”; ora è la persona a dire all’impresa se l’offerta la convince». È il segno di un nuovo equilibrio, dove il potere contrattuale si sposta verso chi porta competenze qualificate.

Rispondendo alla provocazione sull’ipotesi di “aziende piene di robot”, il docente ha chiarito che la realtà è già davanti agli occhi: «Le imprese manifatturiere oggi contano più personale impiegato che operaio, perché vivono soprattutto di competenze tecniche e organizzative». L’automazione, quindi, è diffusa, ma non sostituisce del tutto la necessità di capitale umano.

LA FUGA DI CHI SI LAUREA IN ITALIA E LA SFIDA DELL’ATTRATTIVITÀ

Un dato allarmante emerge dalle ricerche citate da Iacobucci: «L’Italia registra un saldo negativo di laureati e laureate verso l’estero. Anche le regioni più sviluppate come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna perdono talenti qualificati, perché ne attraggono dal Sud ma non riescono a trattenerli rispetto alla concorrenza internazionale».

Il problema non riguarda soltanto i salari, come mostrano le indagini della Fondazione Nord Est: «Conta anche il modello di governance», ha ricordato l’economista. In un sistema ancora troppo familiare, le imprese rischiano di risultare poco attrattive. «I giovani vogliono aziende che valorizzino le loro capacità, che diano autonomia decisionale e prospettive di crescita».

Il nodo della governance ritorna così al centro: la disponibilità degli imprenditori a delegare e ad aprire spazi decisionali fa la differenza. «Non basta pagare di più, serve costruire ambienti in cui le competenze vengano messe a frutto e riconosciute», ha ribadito Iacobucci. Allo stesso tempo, occorre offrire ambiti di lavoro stimolanti. «Produrre bulloni è ancora importante, ma servono anche settori capaci di attrarre i giovani», ha concluso. Digitalizzazione, sostenibilità e nuove tecnologie sono quindi le aree più promettenti per restituire fascino all’impresa e trattenere i talenti in Italia. Elisa Marasca

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