La figura “dell’uomo solo al comando” ha fatto la storia delle piccole imprese del secondo Novecento ed è stata associata ai concetti di rapidità decisionale e di flessibilità strategica. Da qualche decennio, non è più così. C’è un nuovo modo di interpretare la leadership all'interno di una Pmi. L'imprenditore, nell'economia complessa di oggi, deve svolgere molti ruoli e rischia di non riuscire a star dietro a tutti (deve fare il commerciale, il responsabile tecnico, deve curare i bilanci, fare il capo del personale, interpretare le tendenze di mercato, studiare nuovi prodotti o servizi, riorganizzare l'azienda in modo efficace, pensare a come trasformarla in senso digitale o green).
Spiega tutto Paolo Gubitta, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova e direttore scientifico del Centro Competenza Imprenditorialità e Imprese Familiari Cuoa Business School.
«L’idea dell’uomo solo al comando – spiega – prima di tutto è messa in crisi dalla crescita dimensionale dell’impresa, perché anche a parità di complessità gestionale, basta la quantità di decisioni da prendere per saturare una sola persona. In più, in contesti competitivi e tecnologici che cambiano con crescente frequenza e che prendono direzioni imprevedibili, le competenze di una sola persona non bastano. Pensiamo alla geopolitica che chiude mercati consolidati e ne apre di nuovi, o all’intelligenza artificiale applicata alla produzione e ai servizi che cambia i processi interni. In tutti questi casi, alla figura leader devono affiancarsi altre persone con competenze specifiche e con ruoli coerenti. Per le imprese di più piccola dimensione è un bel problema, perché a volte non riescono ad attirare professionalità adeguate e non sempre riescono a saturarle, cioè ad assegnare loro un ruolo che giustifichi il loro inserimento in azienda e il loro stipendio».
La leadership condivisa, quindi, è un’evoluzione necessaria, che prescinde dalla dimensione e che permette all’impresa di dotarsi di un “team di direzione” coerente e che prescinde dalla dimensione. Adottare questa forma significa passare dall’io al noi. La risorsa chiave è l’attitudine alla delega, ovvero la disponibilità a condividere con altre persone la responsabilità di prendere decisioni, accompagnata dalla capacità di disegnare in modo corretto i ruoli organizzativi e dalla disponibilità di chi è leader a «rispettare i ruoli altrui», ovvero a non ritirare di fatto la delega.
Quando succede, si delegittima la persona delegata e diventa poi più difficile riavviare processi credibili di responsabilizzazione. «Ci sono quindi – prosegue l’esperto – due alternative per passare al “noi” e quindi alla leadership condivisa. La prima è farlo in famiglia. L’esperienza mostra che, in tutti i processi e le funzioni aziendali, la convivenza intergenerazionale è un tratto distintivo dell’impresa familiare moderna».
Il fenomeno è di particolare interesse per la nota questione del passaggio generazionale: da un lato, la generazione al comando che non sempre è pronta a delegare (per davvero), dall’altra le generazioni più giovani che reclamano spazio per assumersi responsabilità. In pratica, le imprese sono chiamate a definire, anche in modo informale, dei percorsi di sviluppo e carriera che permettano alla next gen di sperimentarsi nei ruoli di gestione coerenti con la loro formazione e le loro aspirazioni.
Al fine di agevolare la presa di coscienza di quello che si sa, si vuole e si può fare è opportuno prevedere delle job rotation, cioè un periodico cambio di ruolo per prendere confidenza con le aree aziendali più significative, inserito in un progetto di crescita che porti la next gen sia a misurarsi sia a valutare l’interesse ad assumere posizioni di leadership.
«È un modo concreto e alla portata di tutte le imprese per affrontare in modo efficace il delicato momento del passaggio generazionale. Seguire questo approccio ha anche altri benèfici effetti: libera la next gen dal peso, a volte insostenibile, di dover per forza entrare e portare avanti il business di famiglia per senso del dovere e responsabilità. Aumenta l’appeal dell’azienda sul mercato esterno del lavoro manageriale, perché comunica la capacità di gestire il capitale umano con trasparenza ed equità. Impatta positivamente sul clima familiare perché tutte le persone della next gen se la possono giocare».
Ma potrebbe anche succedere che la next gen non ci sia o che non sia interessata a entrare nell’azienda di famiglia? «Per le piccole imprese che non hanno la next gen interessata a lavorare nell’azienda di famiglia, la soluzione è la promozione del personale interno, adottando le pratiche già indicate. Vero è che anche tra il personale non familiare ci possono non essere figure adeguate o che, soprattutto nelle realtà più piccole, “non ci sia abbastanza da fare” per prevedere un ruolo di contenuto manageriale. In tal caso, si può ricorrere a una pratica che si sta diffondendo con una certa rapidità: il fractional management o part-time management. Davide Maniaci