Oltre 300 milioni di persone nel mondo soffrono di disturbi mentali e psicologici riconducibili al lavoro: ansia, depressione, addirittura stress post-traumatico. Un dato, questo, diffuso dall’Organizzazione mondiale della sanità in riferimento al 2021. E le cose, riferendoci a tempi più recenti, non vanno meglio. Anzi.
Focalizziamoci sull’Italia. Secondo una ricerca di Bva Doxa realizzata nel 2023, commissionata da Mindwork e presentata in occasione della Giornata mondiale della salute mentale, il 76 per cento dei lavoratori – uomini e donne – ha sperimentato almeno uno dei sintomi che identificano il burnout, fra cui una sensazione di sfinimento, un calo della motivazione e della resa, scarsa autostima, un distacco mentale e una disillusione (se non cinismo) nei confronti del lavoro. Siamo sul +14 per cento rispetto al 2022. A una persona su cinque, inoltre, il burnout è stato diagnosticato. Più della metà degli intervistati, durante il percorso professionale, ha lasciato il lavoro proprio per questo malessere emotivo; una decisione diffusa soprattutto tra la Gen Z e i Millennials. Direttamente collegata, dunque, al fenomeno del job hopping.
Ma è possibile invertire la marcia? Creare, cioè, un ambiente di lavoro sereno? E quali sono le azioni che un’azienda dovrebbe intraprendere per raggiungere l’obiettivo? Domande che ci siamo posti e abbiamo posto a Riccardo Germani, psicologo e career coach.
Il burnout è una realtà, nessuno lo mette in dubbio. Sempre più diffusa in ogni dove, Italia compresa. Però Riccardo Germani fa una riflessione da condividere: «Di burnout si parla da anni, ma per lungo tempo è stato associato a contesti molto stressanti, con carichi di lavoro impegnativi a livello sia fisico che psicologico: basti pensare al personale sanitario. Successivamente si è diffuso anche per altre categorie professionali, tuttavia ritengo che oggi sia un termine un po’ abusato. Succede anche per altre forme di malessere: non di rado, per esempio, sento parlare di adhd in caso di semplici difficoltà di concentrazione». Ritrovare le giuste misure sarebbe opportuno.
Fatta questa premessa, analizziamo le cause dello stress da lavoro: «È una concomitanza di numerosi fattori: incertezza dal punto di vista economico e sociale, più in generale precarietà e mancanza di tutele. Aggiungiamo il fatto che gli ultimi 4-5 anni sono stati costellati di pandemie, guerre, crisi. Non secondario, inoltre, è lo sviluppo tecnologico veicolato dall’Intelligenza artificiale. Che può spaventare ed essere percepito come una minaccia, oltre a richiedere rapidi adeguamenti. Insomma: ci sono mille trasformazioni in corso. Adattarsi è doveroso ma anche faticoso e, appunto, stressante».
Ma c’è un altro elemento che causa malessere psicologico nell’ambiente lavorativo e può finire per scatenare il burnout: la disillusione. Inserirsi nel mercato del lavoro è difficile, sempre di più. «È anche – spiega Germani – una questione di ricambio generazionale. Che avviene con fatica, soprattutto in Italia, per una questione culturale e per la struttura delle imprese». Una volta raggiunto l’obiettivo, la realtà appare fin troppo lontana da quanto auspicato. E allora ecco questa disillusione collettiva che appare in costante crescita: «Si comincia il proprio percorso professionale con aspettative alte, che poi man mano si abbassano. Spesso ci si ritrova a rinunciare ai propri sogni e ideali. Sostanzialmente, c’è un disequilibrio tra ciò che il lavoro dà e ciò che richiede». Ed è quasi un cane che si morde la coda, perché la disillusione trova alimento anche altrove: «Banalmente, gioca un ruolo anche l’inflazione. Le persone vedono diminuire il proprio potere di acquisto e il disagio aumenta ulteriormente».
Passiamo all’altro quesito, chiamando in causa le Pmi: cosa possono fare per evitare questi fenomeni? La mentalità giusta apre le porte al confronto con il lavoratore. Ma anche agli orari flessibili, allo smart working, «alla capacità di attribuire maggiore valore agli obiettivi anziché alle ore lavorate». Alle competenze emotive, relazionali e comunicative dei manager.
Le possibili soluzioni
Un grosso errore è sottovalutare il nesso tra felicità del lavoratore e produttività. Che è invece molto forte, come dimostrato da numerosi studi: «Tra l’altro è stato appurato – ricorda Germani – che investire sulla salute mentale ha un ritorno di investimento di 3 a 1 e riduce il turnover».
Può sembrare quasi un paradosso, ma cambiare marcia non è poi così difficile. «Senza andare troppo lontani, ci sono due cose semplici e a costo zero che permettono di costruire un dialogo con i propri dipendenti: 1) non parlarsi sopra 2) mettere da parte l’ego, quindi riuscire ad ascoltare anche ciò che non va. E magari accettare critiche dolorose senza iper reagire. Può bastare già questo, invece di realizzare webinar strapagati a cui non partecipa nessuno, per ottenere cambiamenti enormi».
E gli incentivi economici? Possono funzionare? «Fanno piacere, certo. Ma è meglio, lo ribadisco, valorizzare e dare credito. Riconoscere il lavoro ben fatto, anche. Prendersi delle responsabilità e magari sollevare il dipendente se - per esempio - i risultati non sono quelli sperati. Anche perché può essere conseguenza di una strategia sbagliata».
Infine, anche questo va sottolineato, la flessibilità dovrebbe diventare una vera e propria parola d’ordine. Soprattutto in riferimento ai Millennials e alla Gen Z, che la ritengono indispensabile quanto naturale; perché danno importanza a cose, in primis il tempo libero e lo stile di vita, che per i boomers sono quasi secondarie. E faticano a concepire l’idea di dover trascorrere otto ore in ufficio, tutti i giorni. Trovano sia una cosa inconcepibile, una forma di controllo e una totale mancanza di fiducia nei loro confronti.
«Spesso – puntualizza Riccardo Germani – c’è una flessibilità di orari unidirezionale. Un ragionamento del tipo: “se c’è bisogno, resti di più”». E allora, dovrebbe valere anche il contrario. Lo stress da lavoro, come la serenità sul posto di lavoro, sono una questione di testa. Nadine Solano