La twin transition (digitale e green) traina la produttività, ma per farla decollare servono formazione e competenze
Parliamo di formazione e delle sue ricadute positive per le imprese con Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi Guglielmo Tagliacarne. «Questi processi riescono ad avere un effettivo impatto aziendale se sono accompagnati da una contemporanea crescita del capitale umano e da un ammodernamento delle pratiche aziendali»
Formazione: come, quando e perché? Il come si declina in tante forme diverse e ormai sempre più customizzate, il quando si traduce in sempre (perché per affrontare le sfide dei mercati globali la formazione deve essere continua) e il perché è ormai condiviso dalle imprese di qualunque dimensione e tipologia: i percorsi formativi sono una fra le leve più forti per aumentare produttività, competitività e attrattività.
Ne abbiamo parlato con Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi Guglielmo Tagliacarne. Che dice: «Bisogna ragionare sulla integrazione dei percorsi formativi, favorendo la relazione tra persone aventi un diverso livello di conoscenze e di integrazione tecnologica, ma anche una differente esperienza aziendale. È da queste modalità che ritengo possano venir fuori migliori risultati, lavorando per gruppi».
Gli imprenditori delle Pmi, oggi, come devono intendere la formazione e questa come deve cambiare alla luce delle tante rivoluzioni che impattano direttamente sulle aziende?
Nell’aggregato delle piccole e medie imprese ci sembra di cogliere una buona consapevolezza per le tematiche formative, a seconda del livello di complessità. Nel complesso, le imprese sono più favorevoli all’attività di upskilling – cioè tendono a una crescita più ampia di qualità formativa - mentre risulta minore l’attenzione verso le più complesse azioni di crescita imprenditoriale e manageriale. Per fare un esempio il 62% delle imprese più piccole realizza attività di formazione sull’upskilling, mentre per le imprese più grandi questo valore raggiunge l’81%. Le imprese più piccole hanno una minore propensione a realizzare azioni formative rispetto alle medie imprese. Sono soprattutto le imprese più piccole ad essersi rese conto, principalmente dopo la pandemia, dell’importanza della formazione come modalità per far crescere il capitale umano. Tuttavia, queste spesso non riescono a mettere a punto una coerente strategia di formazione, in particolare a livello pluriennale.
Quanto è importante diversificare la formazione all’interno dell’azienda, magari pensando a pacchetti “personalizzati” per le vecchie generazioni e per quelle nuove?
La twin transition, ossia la transizione digitale e green, rappresenta uno dei principali aspetti della competitività. Tanto è vero che le imprese che realizzano investimenti al riguardo hanno una produttività del 14% superiore rispetto alle aziende che non investono su questi aspetti. Allo stesso tempo sono le stesse imprese che ci dicono che uno dei principali ostacoli all’adozione di tecnologie green e digitali è rappresentato da aspetti di tipo culturale. Sappiamo, inoltre, che questi processi riescono ad avere un effettivo impatto aziendale se sono accompagnati da una contemporanea crescita del capitale umano e da un ammodernamento delle pratiche aziendali, diversamente il loro impatto è molto lontano da quello potenziale. E tuttavia, ce lo dicono gli stessi dati sulle incentivazioni di impresa 4.0, la velocità degli investimenti è inferiore a quella dell’adeguamento del capitale umano. Qui indubbiamente c’è anche un problema generazionale.
Nel nostro paese, anche per effetto della crisi demografica, l’età media in impresa è elevata: negli ultimi venti anni tutto l’incremento dell’occupazione è frutto delle persone che hanno oltre 50 anni, mentre la classe di età tra i 14 e i 34 anni ha perso più di due milioni di occupati. Le generazioni più anziane, che sono in maggioranza tra chi lavora, sono in genere meno predisposte al cambiamento di mentalità gestionale e strategica indotto dai nuovi processi, rispetto ai più giovani che hanno maggiore abitudine al riguardo e anche maggiore flessibilità e curiosità. Più che di percorsi separati però cercherei di ragionare sulla integrazione dei precorsi formativi, favorendo la relazione tra persone aventi un diverso livello di conoscenze e di integrazione tecnologica, ma anche una differente esperienza aziendale. È da queste modalità che ritengo possano venir fuori migliori risultati, lavorando per gruppi. Del resto, il segreto della creatività è di mettere a fattor comune esperienze diverse.
Si parla sempre più di hard skills e soft skills, con un accento proprio su queste ultime: perché?
Siamo inseriti pienamente in quella che l’economista Kennet Galbraith molti anni fa chiamava “Era dell’incertezza”. Il mutamento non solo tecnologico ma anche sociale è rapidissimo. Qui ci scontriamo con il tema delle competenze che invece spesso sono cristallizzate. Dinanzi a questa situazione le hard skill rischiano di essere obsolete in pochissimo tempo. Da qui la necessità di far ricorso ad abilità trasversali che invece dimostrano quella forte capacità di adeguamento sempre più richiesta per fronteggiare situazioni di incertezza permanente, attraverso flessibilità e apertura all’apprendimento continuo. Un aumento della digitalizzazione delle attività di routine può, peraltro, creare nuovi spazi per compiti non routinari in cui sono necessarie creatività e competenze sociali. In questo senso, la Commissione europea nella sua Skills Agenda pone, accanto alla necessità di aumentare il numero di laureati in discipline STEM, quella di promuovere le competenze imprenditoriali e trasversali indicando come “la crescente influenza dei robot e degli algoritmi sui nostri mercati del lavoro aumenta ulteriormente la necessità di competenze prettamente umane come l'empatia e l'adattamento ai cambiamenti in contesti complessi”.
A conferma di ciò, tra le dieci competenze individuate dal World Economic Forum per la crescente importanza che avranno nel futuro, più della metà sono di tipo trasversale, con ai primi posti il pensiero creativo, il pensiero analitico e la curiosità e capacità di apprendimento continuo. Anche il Cedefop, poi, mette in rilievo la crescente importanza rivestita dalle soft skills, come la resilienza e l’adattabilità, per fronteggiare un periodo storico, come quello attuale, caratterizzato dal susseguirsi di crisi. Mentre nel suo Skills Outlook 2023, l’OCSE ha identificato le competenze socio-emotive e di comunicazione, o quelle metacognitive (come la capacità di riflettere sui propri processi di pensiero e di pianificare il raggiungimento degli obiettivi) tra quelle più importanti per la transizione digitale e verde.
La formazione è considerata anche come strumento di Welfare. Un’offerta che alcuni imprenditori usano per tenersi i giovani in azienda: come la si deve pensare?
In primo luogo, dico che è essenziale introdurre politiche per trattenere i giovani talenti. Noi abbiamo visto che chi opera in questo senso ha una produttività aziendale di circa il 10% superiore rispetto a chi non è sensibile al tema.
Quanto alla leva formativa, personalmente credo che sia un aspetto positivo. Forse, più che uno strumento di welfare io lo vedrei come un incentivo all’investimento in capitale umano. È un poco la logica della formazione permanente: non possiamo pensare che il training on the job sia sempre e solo la modalità di aggiornamento delle competenze. Favorire e sovvenzionare la formazione dei dipendenti, anche attraverso un processo di codecisione sui percorsi formativi, rappresenta una modalità di fare manutenzione e sviluppo del capitale umano personale e in questo senso lo vedo come un incentivo utile, per l’azienda e anche per la persona. Un vero e proprio incentivo reale per una crescita professionale a tutto campo.
Coaching, laboratori, sessioni in aula: la formazione deve essere sempre più integrata?
L’ho detto prima. La vera formazione, quella che aiuta a pensare e a favorire soluzioni innovative, non può che essere integrata e tra diverse sensibilità. E’ molto differente da quella che definirei educazione/addestramento tecnico che riguarda invece le specificità applicative e le singole routine. In questo senso, occorre aprirsi alle tematiche innovative e mescolarle e, ritengo, anche favorire molto di più un approccio umanistico e a tutto campo nei metodi formativi. Oggi facciamo riferimento alle discipline STEM a carattere matematico scientifico, ma da tempo l’acronimo è stato integrato in STEAM dove la “A” sta per Arts a significare il ruolo importante che assumono un questo processo formativo le discipline umanistiche.
Quali sono le modalità formative che possono essere più funzionali alle esigenze di una Pmi?
Qui dobbiamo considerare non tanto le imprese medio-piccole o quelle medio grandi, quanto la situazione delle piccole e soprattutto delle micro-aziende. Contesti organizzativi molto piccoli non sono necessariamente meno complessi, anzi. Però c’è chiaramente un vincolo organizzativo e di tempo. Personalmente credo che forme di formazione a distanza possano essere utili e avvicinare alla problematica, ma riguardano sostanzialmente aspetti più di tipo tecnico. Indubbiamente la rete può favorire anche i confronti e lo scambio di idee in gruppi virtuali risparmiando i tempi di spostamento, ma a mio avviso la formula migliore è quella blended in cui a una attività a distanza si accompagnano alcuni momenti di socializzazione in presenza. Come dosare i diversi aspetti è una questione che poi va affrontata nelle singole realtà.
Senza formazione non ci potrà essere alcuna transizione delle imprese sul digitale e sulla sostenibilità?
Come ho già detto, ritengo che qualsiasi innovazione vada accompagnata da una attività formativa che non riguarda tanto l’addestramento tecnico, quanto la capacità di inserire l’innovazione nelle routines e nei processi aziendali. È stato così dalla prima rivoluzione industriale con la macchina a vapore e continua ad essere vero a maggior ragione oggi con la quarta e quinta rivoluzione. Come ci ricordano Erik Brynjolfsson e Andrew McAffe il successo competitivo si basa sulla capacità di sfruttare le innovazioni ricombinanti. Da questo punto di vista, innovazione green e digitale si alimentano a vicenda. Ma tutto questo è possibile solo grazie alla capacità dei lavoratori di assicurare una innovazione continua adeguando, cioè, le tecniche e le tecnologie ai nuovi problemi e soluzioni che fino a ieri sembravano un campo di applicazione impossibile, se non inimmaginabile. Davide Ielmini