Partecipazione dei lavoratori in azienda: svolta epocale o rischio per le Pmi?
La Camera approva il Ddl 1407: lavoratori nei CdA e utili condivisi. Opportunità o complicazione per le Pmi? Pro e contro della nuova governance analizzati con l'economista Spano
Il 26 febbraio 2025 la Camera ha approvato il Disegno di Legge 1407, promosso dalla Cisl e dalla maggioranza, per disciplinare la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese, attuando l’art. 46 della Costituzione. Il testo ora dovrà passare al vaglio del Senato e, in caso di passaggio positivo, potrebbe entrare effettivamente in vigore entro la fine dell’anno.
L'obiettivo è rafforzare la collaborazione tra datori di lavoro e dipendenti, promuovere la democrazia economica e garantire la sostenibilità delle imprese. Ne abbiamo analizzato pro e contro nell'ottica delle Pmi con Francesco Maria Spano, docente di Economia aziendale all’Università degli Studi di Milano.
COSA PREVEDE IL DISEGNO DI LEGGE 1407

Il Ddl di fatto prevede la possibilità per le aziende di coinvolgere in maniera più diretta e impattante i propri dipendenti. Come spiega Spano, una discriminante importante è proprio il verbo usato: “possono”, non “devono”.
«È stato corretto inserire i “possono” nel testo, in quanto si tratta di una svolta epocale nei rapporti di lavoro all’interno delle imprese. Il “devono” non sarebbe stato coerente con la cultura d’impresa attualmente presente nel nostro Paese e con la ridotta dimensione media delle Pmi del nostro tessuto imprenditoriale».
Le aziende, dunque, possono:
- prevedere la partecipazione ai consigli di sorveglianza, qualora istituiti (quindi, mai nella sostanza), di uno o più rappresentanti dei lavoratori;
- prevedere nei Cda la partecipazione di uno o più rappresentanti gli interessi dei lavoratori;
- prevedere piani di partecipazione finanziaria dei lavoratori dipendenti che prevedano anche l’attribuzione di azioni in sostituzione dei premi di risultato;
- promuovere l’istituzione di commissioni paritetiche, composte in eguale numero da rappresentanti dell’impresa e dei lavoratori, in materia di piani di miglioramento e innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro;
- prevedere nel proprio organigramma le figure dei referenti della formazione, dei piani di welfare, delle politiche retributive, della qualità dei luoghi di lavoro, della conciliazione e della genitorialità, nonché quelle dei responsabili della diversità e dell’inclusione delle persone con disabilità;
- le imprese che occupano meno di 35 lavoratori possono favorire, anche attraverso gli enti bilaterali, forme di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione delle imprese stesse.
GOVERNANCE AZIENDALE E MODELLI EUROPEI

Ma tutto ciò è fattibile? Non è facile prevedere uno sviluppo del genere – soprattutto in tempi rapidi – in Italia. Per una questione storica e culturale.
«Le Pmi italiane, infatti spesso a conduzione familiare, presentano forte accentramento decisionale, scarsa delega e governance semplificata. Gli imprenditori tendono a gestire l’azienda in modo autonomo, anche in età avanzata, rallentando il ricambio generazionale», spiega Spano.
L'Italia ha tentato di introdurre nel 2003 un sistema di governance dualistico (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza), ma con scarso successo. In altri Paesi europei (Germania, Austria, Paesi Bassi e Polonia) il modello è più diffuso, mentre in altri (Francia e Spagna) è facoltativo ma poco adottato. Nei Paesi scandinavi, pur con un modello tradizionale, la partecipazione dei lavoratori ai Cda è più comune grazie alla cultura imprenditoriale. In generale, la partecipazione dei lavoratori è più sviluppata dove è obbligatoria o culturalmente radicata.
COINVOLGERE I DIPENDENTI: GLI ASPETTI POSITIVI
Entrando più nel dettaglio, vediamo quali potrebbero essere gli aspetti positivi dell’applicazione del Ddl.
«Gli aspetti positivi del coinvolgimento dei dipendenti sarebbero evidenti, ma, a mio parere, più nella forma della partecipazione al Cda, quindi nelle scelte decisionali, che al capitale delle società – spiega il docente - Già oggi nelle Pmi, quantunque 'padronali', avviene un confronto a molti livelli, ma non è 'istituzionalizzato'. Tra gli strumenti di maggior coinvolgimento nella vita dell’impresa vi è la partecipazione al capitale, che sembra la forma più completa, più qualificante per un dipendente, in quanto accomuna imprenditore e lavoratori alle stesse sorti, ma è forse la meno praticabile».
Secondo Spano, infatti, la partecipazione al capitale in una Pmi risulterebbe un aspetto più “ideale” e "onorifico” che reale, potendo riguardare piccole quote o un numero limitato di azioni del capitale sociale, che non avrebbero un reale impatto sulla gestione.
«Si deve anche considerare che, in caso di uscita del dipendente dalla società per qualsiasi motivo, tali quote non potrebbero essere valorizzate come quelle della maggioranza, in quanto nettamente minoritarie, e subirebbero in una valutazione il cosiddetto “sconto di minoranza”. Poi, occorrerebbe trovare un acquirente, che non potrebbe che essere un altro socio attraverso il meccanismo del diritto di prelazione, sicuramente previsto in statuto. Si configurerebbe, quindi, il cosiddetto 'lack of marketability', tipico delle quote di minoranza, che ne deprimerebbe il valore».
«Il confronto è considerato, anche nelle Pmi di piccole dimensioni, positivo e importante, purché non si traduca in formalità eccessive e vincolanti. In sintesi, gli aspetti positivi potrebbero esser molti, ma l’applicazione formalizzata degli articoli del Disegno di Legge farà sì che poche imprese adottino in modo pervasivo queste importanti previsioni».
I RISCHI E LE AZIONI PER MITIGARLI
I rischi non sono pochi, soprattutto da un punto di vista della predisposizione. I principali possono essere il timore degli imprenditori di eccedere nella formalizzazione dei comportamenti, di essere eccessivamente “vincolati” nelle scelte imprenditoriali, di avere un
rallentamento nel processo decisionale, di generare un eccesso di conflittualità nelle riunioni o di sostenere costi non necessari.
«Le Pmi hanno già molti problemi di competitività, di finanziabilità, di sottocapitalizzazione, di internazionalizzazione, di adeguamento alle normative sulla qualità e, a breve, sulla sostenibilità – aggiunge Spano - I rischi percepiti dagli imprenditori potrebbero essere superiori ai benefici. Le azioni probabilmente saranno quelle già adottate al presente, ossia confronti informali con i lavoratori con maggiore esperienza delle loro impresa sui processi di lavoro e sui prodotti, sull’organizzazione del lavoro, premi monetari a fine anno in relazione ai risultati aziendali, manifestazioni per migliorare il clima aziendale, bonus e fringe benefit di varia natura. In questo modo, senza procedere formalmente nella direzione del Disegno di Legge, si avvicineranno al mondo dei lavoratori, che – non lo dimentichiamo – è il loro mondo»
PER CHI È UNA BUONA IDEA E PER CHI È UNA TRAPPOLA?
Dunque, chi si potrà permettere di aderire a quanto prevede il Ddl?
«A mio parere, quanto previsto rappresenta un modello “importante”, ma applicabile a Pmi di dimensioni già ben strutturate, in cui i concetti di Cda, di organi di controllo, di processi di revisione, di rendicontazione di sostenibilità, di comitati su temi specifici sono già stati acquisiti e metabolizzati – conclude Spano – Per gli altri sarebbe importante aderire al modello, ma questo comporterebbe vincoli organizzativi che potrebbero rivelarsi oltre la loro portata».
«Non parlerei di “trappole”, ma di complicazioni eccessive, che l’imprenditore oggi non riuscirebbe a vivere con la dovuta serenità. Sarebbe in molti casi un passo troppo lungo anche se potrebbe indubbiamente creare una maggiore coesione a livello di clima aziendale, qualora con gli altri comportamenti, già oggi presenti, non fosse riuscito a ridurre la distanza imprenditore-lavoratore». Tomaso Garella